Pitigliano è un caratteristico borgo della Maremma grossetana, unico nel suo genere per la particolarità di essere costruito interamente su di un masso tufaceo, il chè lo rende uno dei luoghi più interessanti dell'area del tufo.

 

Conosciuto anche per la tradizionale festa della “Torciata di San Giuseppe” durante la quale, bruciando un pupazzo simbolico si dà l'addio all'inverno, il paese nel corso degli anni è divenuto un’importante meta turistica della Maremma.

 

Il territorio fu abitato già in epoche molto antiche, come può essere facilmente testimoniato dai numerosi reperti di origine etrusca, come le necropoli e le vie cave, riportati alla luce nelle aree circostanti il paese, leggenda vuole che il borgo sia stato fondato da due giovani, Petilio e Celiano che, scappando dalla loro città dopo aver rubato un oggetto importante decisero di rifugiarsi in questa parte della Toscana, fondando un nuovo paese.

 

Attualmente, da recenti campagne di scavo archeologico, è risultato che Pitigliano fu sede di stanziamenti protostorici già durante le varie fasi dell’età del bronzo (2000 – 1000 a.c.). Successivamente divenne sede di un importante insediamento Etrusco di cui restano parti di mura e numerose necropoli. Il nome Etrusco di Pitigliano non è conosciuto, forse trattasi di quella Statnes (o Staties) che in epoca romana divenne Prefettura e fu detta Statonia.Il nome di Pitigliano invece deriva dalla gens Petilia, importante famiglia romana che dette il proprio nome a diverse località. Dall’862 inizia il dominio della famiglia Aldobrandesca che dura fino alla fine del XIII secolo. Nel 1293 a seguito del matrimonio dell’ultima erede della famiglia Aldobrandesca, Anastasia, con Romano Gentile Orsini, Pitigliano diviene una Contea di questa famiglia guelfa. Fino dalla fine del 1400 divenne per gli Ebrei un importante centro, tanto che nel 1598 fu eretto un Tempio tuttora esistente. Nel XVII la Contea passa sotto il dominio dei Medici e nella prima metà del settecento entra a far parte del Granducato di Toscana del quale seguirà le sorti fino all’unità d’Italia.

 

Le antiche tradizioni e i costumi del borgo toscano sono raccontati all'interno dei musei che vi sono stati allestiti: il Museo della Civiltà Giubbonaia, che raccoglie antichi utensili utilizzati in campagna e nelle case, il Museo di Palazzo Orsini, il Museo Civico e Archeologico ed infine il Museo all'Aperto”La Città dei Vivi, La Città dei Morti”, dedicato alla storia etrusca sul territorio.

 

Pitigliano è molto ricco di monumenti ed edifici che ne raccontano la storia, passeggiando per il paese si possono infatti incontrare l'imponente Duomo,costruito nel corso del XVI secolo e dedicato ai Santi Pietro e Paolo, la Chiesa di Santa Maria, anticamente intitolata a San Rocco, il Santuario della Madonna delle Grazie, il Palazzo Orsini, la Fortezza Orsini ed infine il Monumento alla Progenie Ursinea, costituito da un masso di pietra con gli stemmi della famiglia e sormontato da un orso araldico.

 

Poco fuori dall'abitato si trova il Cimitero Ebraico, visitabile su prenotazione. Nel Ghetto la Sinagoga, costruita nel 1598 è stata recentemente restaurata e nei locali adiacenti è stato realizzato un Museo di Arte e Cultura Ebraica. Nei vicoli sottostanti si sviluppano vari ambienti scavati nel tufo: il bagno rituale, la macelleria e la cantina kasher, il forno degli azzimi, tutti recuperati e visitabili".

 

Apprezzabile è inoltre la produzione dei vini DOC “Bianco di Pitigliano” e "Rosso Sovana" .

 

Da assaporare i dolci tipici, i cosiddetti “Sfratti” a forma di piccoli bastoni con miele e noci che, nella tradizione popolare, ricordano nella forma il bastone con cui veniva bussato alla porta quando le autorità eseguivano lo sfratto.

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Secondo Servio, commentatore dell'Eneide di Virgilio, Populonia sarebbe stata la prima città etrusca fondata da un popolo venuto dalla Corsica o dai Volterrani. Gli scavi smentiscono questa versione perché le tombe più antiche di Populonia sono di epoca Villanoviana quindi si escludono interventi còrsi. Inoltre Volterra non può avere fondato Populonia perché le sue tombe sono più recenti. Oggetti di pietra levigata fanno pensare all'esistenza di Populonia già nell'età neolitica. In epoca Villanoviana c'erano due stanziamenti che lavoravano il rame e due diversi nuclei che si fusero insieme in un'unica città: Populonia.

Il nome Populonia (Pupluna) deriva dal nome del dio Fufluns, divinità inizialmente legata all'agricoltura e poi identificata con Bacco. L'etimologia del nome sembra dunque connessa con la fertilità del suolo. Populonia è l'unica città etrusca che viene fondata sul mare, la più settentrionale lucumonia costiera. Populonia faceva parte delle 12 città , una lega religiosa di dodici - città stato - che una volta l'anno si riuniva presso Voltumna (probabilmente vicino al lago di Bolsena), sede di un santuario; qui avevano svolgimento riti religiosi, feste e giochi e venivano prese di comune accordo anche decisioni politiche.

Baratti-Populonia era divisa in due parti: la parte alta e la parte bassa. La parte alta, corrispondente all'acropoli, era abitata da persone ricche che avevano il potere politico; nell'acropoli veniva anche praticato il culto. La parte bassa era la zona dei morti,la necropoli, vicino ad essa risiedevano le persone più povere. Qui si trova anche la zona industriale, con i forni per la lavorazione dei metalli e, nel IV sec. a.C., del ferro: la città fu infatti assai fiorente nel settore sia minerario che industriale. Populonia raggiunse il massimo dello sviluppo e dello splendore nel V sec. a.C, grazie agli intensi scambi commerciali con la Grecia.

Il popolo etrusco credeva che i defunti continuassero a vivere nelle tombe; i defunti venivano sepolti infatti con un corredo funebre personale. Gli Etruschi erano un popolo amante dei piaceri della vita; gli affreschi infatti hanno spesso come tema banchetti sontuosi a cui partecipavano sia uomini che femmine. Il patrimonio culturale di questo popolo è così vasto e ricco che Roma ne rimase talmente affascinata ed influenzata da far propri molti aspetti culturali ed architettonici di questa civiltà.

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L'origine di Rosignano paese, è antichissima e con moltissime probabilità etrusca. Il primo documento scritto fin'ora conosciuto, che ricordi Rosignano, è dell'anno 762, mentre Vada si trovava già chiaramente indicata nella carta 'Peutingeriana' del 330 o 395 a.C. 

Rosignano fin dall'anno 900, cioè dopo la dominazione Longobarda, e durante quella dei Carolinghi, fu compresa nel Marchesato di Toscana e, fin d'allora seguiva le sorti di Pisa; più propriamentedella sua Mensa Arcivescovile che a quell'epoca, si può dire, rappresentava una specie di potere delegato per l'esercizio del quale la Mensa stessa ne traeva notevoli profitti.

1238 - Il Comune di Pisa stanziò 300 danari per la costruzione della torre fortificata di Vada, da utilizzarsi come faro per l'entrata dei navigli nel porto. Questa operazione fù necessaria per incrementare il commercio e lo sviluppo della popolazione in una zona considerata allora deserta ed insalubre; così, nel 1285 Pisa decise esenzioni e privilegi ai nuclei familiari che si stabili in quella rada.

1406 - Firenze annesse il territorio. Ma nel 1431 Rosignano si ribello a Firenze e si schierò con il duca di Milano Filippo Maria Visconti allora in guerra con Firenze. Intorno al 1433 i fiorentini ripresero i paesi insorti, e a causa della loro ribellione ne smantellarono le fortificazioni dei castelli di Vada e Rosignano. Per tale motivo verso il 1450 Vada rimase abbandonata per cui restò bosco e palude fino al 1564 anche sesolo nel 1547 i cittadini gedendo di un esonero ventennale da tasse e da tributiiniziarono un insediamento contadino nelle zone spopolate del Comune.

Sotto il profilo del potere pubblico risulta che vada dal MedioEvo al 1500, fece Comune a sè ed ebbe propri consoli, governatori ed ambasciatori.

1776 - Il territorio di Vada sotto il gran Ducato di Toscana, cominciò ad estendersi a Rosignano , integrando infine il comune di Castenuovo

 

1809 - La Toscana appartenne al Governo francese e, di conseguenza Rosignano fu soggetto al Prefetto del Circondario di Livorno

 

In seguito alle bonifiche attuate tra Otto e Novecento, sulla costa dominata dall’abitato di Rosignano Marittimo nel 1914 venne eretta la fabbrica della società Solvay, destinata a creare un polo industriale molto importante e un insediamento umano che oggi conta 16.000 abitanti. Rosignano Solvay è infatti la frazione più popolosa del comune di Rosignano, e l’abitato si è sviluppato immediatamente a nord-ovest dell’insediamento industriale dove vengono prodotti soda caustica, carbonato e bicarbonato di sodio. La stessa Società Solvay ha in gran parte contribuito alla costruzione del paese, secondo quel criterio di “città giardino” che ha molto influenzato il Novecento europeo. La costa di Rosignano Solvay è caratterizzata da ampie spiagge con moderni stabilimenti balneari. Particolarmente rinomate sono le così dette “spiagge bianche”, che si trovano a sud dell’abitato.

 

.Spiagge desolate e bianche, mare azzurro ed acqua limpida... un sogno che pochi si possono permettere: un viaggio ai Tropici o in una piccola isola dell'emisfero australe. E l'impressione che si ha percorrendo la Statale Aurelia, che collega Livorno a Grosseto, in direzione Sud, è proprio questa: una spiaggia tropicale, senza palme, ma con il mare azzurro e la sabbia candida. 

Dall'alto dell'Aurelia, provenendo da Livorno e superata l'uscita di Castiglioncello, prima di giungere a quella di Rosignano Marittimo, volgendo lo sguardo lungo la costa frastagliata, appare un'anomala striscia di spiaggia bianchissima, lunga circa quattro chilometri. Questo luogo particolare è noto, non a caso, con il nome di Spiagge Bianche.

Il motivo dell'insolito colore della sabbia è la conseguenza di anni di lavorazione dell'industria di bicarbonato che ha il proprio stabilimento a Rosignano Marittimo, a circa un chilometro della costa.

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San Gimignano si erge con il profilo delle sue torri, su di un colle (m.334) a dominio della Val d’Elsa. Sede di un piccolo villaggio etrusco del periodo ellenistico (III-II sec. a.C.) inziò la sua storia intorno al X secolo prendendo il nome del Santo Vescovo di Modena: San Gimignano, che avrebbe salvato il borgo dalle orde barbariche. Ebbe grande sviluppo durante il Medioevo grazie alla via Francigena che lo attraversava. Tant’è che San Gimignano ebbe una straordinaria fioritura di opere d’arte che adornarono chiese e conventi. Nel 1199 divenne libero comune, combattè contro i Vescovi di Volterra ed i comuni limitrofi, patì lotte intestine dividendosi in due fazioni al seguito degli Ardinghelli (guelfi) e dei Salvucci (ghibellini). L’otto maggio 1300 ospitò Dante Alighieri, ambaciatore della lega guelfa in Toscana. La terribile peste del 1348 ed il successivo spopolamento gettarono San Gimignano in una grave crisi. La cittadina dovette perciò sottomettersi a Firenze. Dal degrado e abbandono dei secoli successivi si uscì soltanto quando si cominciò a riscoprire la bellezza della città, la sua importanza culturale e l’originaria identità agricola.

 

Itinerari artistici

 

Il Duomo o Chiesa Collegiata, consacrata nel 1148, strutturata su tre navate è arricchita da pregevoli affereschi di scuola senese: Vecchio e Nuovo Testamento (Bartolo di Fredi e "Bottega dei Memmi"); Giudizio Universale (Taddeo di Bartolo), opere di scuola fiorentina: Storie di Santa Fina (Ghirlandaio), San Sebastiano (Benozzo Gozzoli), Statue Lignee (Jacopo della Quercia) e sculture di Giuliano e Benedetto da Maiano. Tutto questo fà della Collegiata di San Gimignano un museo di grande prestigio.

 

Palazzo comunale Cortile e Sala di Dante con la Maestà di Lippo Memmi. Museo Civico e Pinacoteca con opere di Filippino Lippi, Pinturicchio,Benozzo Gozzoli, Domenico di Michelino, Pier Francesco Fiorentino, Sebastiano Mainardi, Lorenzo di Niccolò di Martino, Coppo di Marcovaldo ecc... Inoltre dal museo civico si può visitare la Torre Grossa o del Podestà costruita nel 1311 ed alta 54 metri. 

Museo d’arte Sacra : Tele, tavole e frammenti lapidei provenienti da chiese e conventi soppressi. Argenterie, corali e vesti liturgiche.

 

Chiesa di Sant’Agostino : Storie di Sant’Agostino (Benozzo Gozzoli) resti di affreschi trecenteschi, tavole e tele di autori diversi (Benozzo Gozzoli, Piero del Pollaiolo, Pier Francesco Fiorentino, Vincenzo Tamagni, Sebastiano Mainardi). Cappella di Santo Bartolo(Benedetto da Maiano). 

Chiese minori: Santo Bartolo, S. Jacopo, San Piero, San Francesco (resti), S.Lorenzo in Ponte.

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Lucca è sicuramente uno dei fiori all’occhiello della Toscana, memore di grandi momenti di splendore; arte, artigianato, economia e cultura. E’ "la città dell'arborato cerchio" come la celebrò l’indimenticabile Gabriele D'Annunzio. Le prime tracce di uomo rinvenute nel territorio riconducono ai popoli liguri ma è con gli Etruschi, come del resto tutta la Toscana e la bassa maremma, che si vede un incremento demografico unito alla crescita economica ed artistica, grazie al commercio e agli scambi. Gli Etruschi prima, e i Romani dopo lasciarono preziose testimonianze, le cui vestigia sono presenti su tutto il territorio .

Con i Romani, nell’89 a.C., diventa municipio e fu forse l’epoca più intensa di fermenti che durò circa due secoli.

Dopo i romani fu la volta dei popoli invasori che si alternarono alla conquista del territorio italiano, e ovviamente toccò la stessa sorte a Lucca, snodo stradale di importanti vie di comunicazione. Per primi arrivarono i Goti, poi i Bizantini e successivamente i Longobardi con i quali divenne ducato e passaggio strategico, ed in parte obbligato, fin verso la valle del Tevere per spostarsi verso l’altro regno longobardo, la Puglia.

Lucca divenne importante in Toscana grazie al condottiero Castruccio Castracani, a Paolo Guinigi che avviò lo sviluppo artistico e culturale. Ma la notorietà di Lucca superò i confini italiani diffondendo la sua fama grazie all'intenso e ricco commercio della seta con l’ Europa e l’Asia. 

Nel 1799, la città venne conquistata dai Francesi e per volere di Napoleone, divenne principato di Felice Baciocchi e Elisa Bonaparte, sorella dell'Imperatore, fino al 1814. Dopo la caduta nopoleonica, gli Austriaci tennero lo Stato fino al Congresso di Vienna che assegnò il Ducato di Lucca a Maria Luisa di Borbone e al figlio Carlo Ludovico.

Nel 1847, Carlo Ludovico cedette il Ducato di Toscana a Leopoldo 11, ma già erano nell'aria quelle idee liberali che avrebbero portato, pochi anni dopo, ad unirlo all'Italia.

 

L’Università dei monetieri è molto antica ed era già presente allíepoca del dominio longobardo. Molti documenti conservati nell'archivio Arcivescovile, ne documentano l’attività. Il "Moneturius" (Zecchiere) costituì una corporazione e sotto la protezione di S. Eligio venne chiamata Collegium Monetariorum" alla quale fu preposto un "Magister Monetae (Maestro di Moneta). Tutti coloro che appartenevano a questa Università erano detti "Overieri" (coloro che fanno moneta) e l'ammissione non era facile perché comportava la conoscenza dell'arte, attestata dalla matricola e veniva fatto loro giurare sui Santi Vangeli l'impegno di esercitare con rettitudine la professione concessa a Lucca dai vari imperatori. Nei locali dell'antico Uffizio della Zecca di Lucca, il "Collegio dei Monetieri" è di nuovo attivo con le antiche metodologie di affinare, fondere, incidere i metalli (segreti custoditi gelosamente da poche famiglie lucchesi, chiamate "De lignaggio Monetae").

La nostra produzione è finalizzata alla ricostruzione della moneta antica, ricostruzione che avviene studiando più esemplari della stessa nel peso, nella grandezza e nello stile per ottenere così un disegno e un modello ben dettagliato, dal quale vengono realizzati i punzoni maschi, incisi e lavorati a bulino. L'antico uffizio della Zecca ha realizzato a Lucca, nei suoi locali di via S. Andrea 45 (nei pressi della torre Guinigi), una esposizione che ripercorre la storia della moneta nei secoli ed è possibile visitarla nei giorni feriali e festivi dalle 9,30 alle 13 e dolle 14,30 alle 19 escluso il lunedì mattina.

 

Visitare le ville di Lucca è impresa di non poco conto se si pensa di esaurire l'approfondimento di questo tema con un'escursione a tempo determinato; si corre il consueto rischio di sottoposi ad un 'infarinatura di notizie accompagnato da una sequenza di immagini che - pur suggestive ed affascinanti - non riusciranno mai a restituirci a pieno il complesso dei valori culturali ed ambientali di quella civiltà lucchese che nelle ville realizza - insieme alla città murata - il suo momento espressivo più elevato. 

Più di trecento tra grandi e piccole sono infatti le residenze in villa che i lucchesi si costruirono nel corso di oltre quattro secoli nei siti più ameni della campagna e dell'arco collinare che circonda la piana di Lucca; dai primi insediamenti trecenteschi nati come casini di caccia, attraverso le grandi ville cinquecentesche delle opulente famiglie borghesi impegnate nell'arte e nel commercio della seta, che tracciarono il territorio e l'ambiente come un superbo quadro naturale, fino ai numerosi epigoni che nella riproposizione di quei modelli completarono il paesaggio - nelle epoche successive e fino alle soglie del novecento - con una interminata serie di dolci e civilissimi tratti, quali sono quelli offerti agli occhi del visitatore anche più frettoloso. Questo patrimonio è ancora tutto nella mano privata, che sovente l'ha tramandato da una generazione all 'altra con la premurosa attenzione che i lucchesi sanno manifestare nelle cose che sono desdnate a restare, e attraverso di esso sta nascendo una nuova maniera di proporsi all'apprezzamento esterno tramite la rinascita dell'ospitalità, della produzione tipica, dell'accoglienza alla cultura e alle arti liberali. Il visitatore non si trova quindi di fronte ad un repertorio circoscritto di monumenti, ma ad una testimonianza perenne di valori che comprende architettura, paesaggio, agricoltura, attività tradizionali, enogastronomia ed anche recessi di quiete e di meditazione, di contemplazione e rigenerazione dello spirito, di godimento d'ambiente in corrotto, in cui è necessario penetrare con progressivo entusiasmo, senza la febbrile inquietudine del turista a tempo, ricercandone man mano la misura che per ognuno si riveli più conveniente. In altre parole in punta di piedi. 

Afferma il Borchardt, che ben conobbe la Lucchesia e a lungo vi soggiornà: «La villa rende onore già di lontano all'ospite in arrivo, ripagandolo di tutto quello che gli nega finché egli èsemplice turista». E comunque giocoforza organizzare questo viaggio in uno o più percorsi, nessuno dei quali - lo diciamo subito - risulterà esaustivo del tema delle ville di Lucca, perché la tentazione sarebbe forse quella di girovagare senza una meta precisa, seguendo un muro di pietre scarnite dal vento e con sorpresa incontrare eleganti prospetti di antichi palazzi celati tra le fronde di alberi secolari; oppure incantarsi ai forti profumi del vino che ribolle nella cantina e attendere sui colli il roseo risolversi dei tramonti. E un viaggio che ha poche tappe sicure ed è spesso affidato all'intraprendenza del forestiero d'antica indole, quello che un tempo trascurava le poste per fermarsi a indagare i segnali della civiltà, scegliendoli nei vasti panorami come nei particolari apparentemente insignificanti e da ciò traendone quel ristoro per lo spirito che - alla fine del pellegrinaggio - gli dava la certezza di tornar migliore di quando era partito.

 

Museo Nazionale di Palazzo Mansi

Fu acquistato nel 1965 dallo Stato italiano come sede per ospitare le opere pittoriche dei musei nazionali di Lucca. 

Museo Nazionale di Palazzo Mansi

Via Galli Tassi, 43 - Tel. 0583 / 55.570 - Fax 0583 / 31.22.21 - Orario 9/19 * festivo 9/14 * chiuso il lunedì.

 

Museo della cattedrale

E' composto da una casa torre duecentesca, una chiesa cinquecentesca ed un corpo principale di origine trecentesca. Vi sono esposti gli oggetti d'arte che hanno caratterizzato nei secoli l'attaccamento e la devozione dell'emblematica figura del Volto Santo - antico crocefisso venerato nel Medioevo in tutta Europa.

Nella sacrestia della Cattedrale è visibile quello che fino ad oggi è ritenuto il monumento funebre che Jacopo della Quercia scolpì di llaria del Carretto - consorte di Paolo Guinigi che fu Signore di Lucca tra il 1400 ed il 1430.

Museo della cattedrale - Via Arcivescovato - Tel. 0583 49.05.30 - Aperto tutti i giorni Apr/Ott 10/18 - Nov/Mar 10/14 - festivi 10/17

 

Lucca ancora oggi conserva per intero la sua possente cinta muraria, nata soprattutto per incutere forza militare ed organizzazione amministrativa; infatti nessuno tentò mai di espugnarla. La cinta muraria è percorribile come una passeggiata sotto a secolari alberi che furono piantati allíepoca per coprire la visuale delle numerose torri in caso di attacco, ma anche come approvvigionamento di legna da ardere. 

Nei secoli successivi la cerchia dei bastioni venne trasformata in una specie di giardino pensile sospeso sulla città. Per secoli, illecitamente i lucchesi vi avevano impiantato piccoli orti, vi avevano mandato a pascolare le proprie cavalcature, mentre i fossi esterni venivano utilizzati come campi di grano o pascoli per le mandrie.

La passeggiata sulla muraglia a piedi o preferibilmente in carrozza era divenutaa nel Settecento una tappa d'obbligo quando si ricevevano principi forestieri e un appuntamento da non perdere nelle giornate monotone della nobiltà durante la bella stagione.

Ancora oggi le antiche mura di cinta che i Lucchesi hanno saputo conservare, proteggono il centro della città dal caos esterno; avvolgono di fascino una delle più belle città díItalia e i visitatori non dovrebbero perdere líebrezza che si prova in una rilassante e suggestiva passeggiata percorsa da secoli di storia.

 

Le Ville di Lucca

Le belle ville che si possono ammirare nei luoghi più suggestivi delle campagne di Lucca, furono costruite nel corso di oltre quattro secoli. Sono oltre trecento, tra cui alcune trecentesche nate come casini di caccia, altre come grandi ville cinquecentesche delle famiglie borghesi e dei ricchi commercianti di seta.

Questo patrimonio è ancora tutto in mani private, 

tramandato meticolosamente e rigorosamente da una generazione all'altra come. Solo alcune di queste ville sono oggi visitabili ed in grado di offrire un'accoglienza degna della migliore tradizione lucchese.

La matrice strutturale e formale di Lucca è data dalla presenza delle ville, includendo con questa accezione tutto l'insieme della villa stessa: l'intera proprietà immobiliare costituita dall'edificio principale, dal parco, dalla fattoria, dalle case coloniche, dalle sistemazioni agrarie, dai boschi e dai corsi d'acqua. "La villa è armonica distinzione di vigneti e uliveti, campi coltivati e zone a selvatico, case di contadini e dimora del Signore" (Isa Belli Barsali); è opera di una borghesia urbana che investiva il frutto dei propri guadagni in terre. Un insieme costruito come una opera d'arte, da un popolo raffinato. Ma questo paesaggio, oggi così apprezzato, non è solo il risultato di una operazione di investimento fondiario. Nell'organizzazione strutturale di questo territorio tutto era tenuto presente: la giacitura dei terreni, la regimazione delle acque, l'ordine delle colture, la collocazione degli edifici, la disposizione degli alberi; con grande semplicità, modestia, funzionalità, ordine, compostezza, rigore. Una matrice comune per la sua definizione e organizzazione è data dalla sistemazione a terrazze o a poggi dei terreni. Con questa tecnica si trasformarono i terreni acclivi della collina in parti piane, evitando l'erosione dei suoli e imbrigliando le acque che, regimate, si convogliarono dove l'uomo voleva. È il grande disegno della collina toscana; è "l'adorno anfiteatro di poggi" di Borchardt; una serie di segni, tra loro paralleli, curvilinei, che modellano variamente, ma con continuità, il contesto territoriale della villa, ne costituiscono il fondale. E' il risultato della lotta, o del dialogo, dell'uomo con la natura per costringerla, o per convincerla ad un uso produttivo, nel rispetto della sua struttura. È il frutto di un lavoro secolare di cui esistono, a Lucca, documenti certi dalla fine del XIII secolo. Questa tipicità del paesaggio lucchese non sfugge a Montaigne che nel Journal de Voyage, intorno al 1580 scriveva: "On ne peut trop loeur la beauté et l'utilité de la méthode qu'ils ont de cultiver les montagnes jusqu'à la cime, en y faisant, en forme d'escalier ...". Nel rapporto tra insediamento collinare e colture, tra villa, giardino e paesaggio anche i materiali usati giocano un ruolo fondamentale: sono materiali cotti in loco, come i laterizi delle fornaci locali (oggi tutte in disuso o demolite), le calci preparate con il calcare ceroide di Santa Maria del Giudice, le sabbie ed i ciottoli del Serchio, le pietre. Sono proprio i materiali lapidei ad intervenire come elementi costitutivi come pezzame da costruzione o come materiale da taglio; sono usati nei muri di recinzione, nelle architetture dei cancelli, nei lastricati, nelle cordonature, nelle fasce decorative, nelle cornici di portali e finestre, nelle case coloniche e negli oratori. Le cave di Matraia e di Guamo erano quelle a cui ci si rivolgeva; una a Nord, l'altra a Sud quasi a servire imparzialmente due parti significative dell'insediamento delle ville. Pur tuttavia le pietre erano usate anche insieme dialogando, con il laterizio, con la loro diversità di colore. I siti ricchi di acque sorgive o serviti da un torrente, con facili possibili derivazioni, erano quelli più ricercati per la costruzione delle ville. L'acqua in villa, oltre ad assolvere mansioni puramente funzionali connesse con la vita domestica e con il lavoro agricolo, diventò occasione per la realizzazione di opere di abbellimento e di divertimento, di puro piacere. Le architetture dell'acqua insieme alle architetture del verde costituiscono il micropaesaggio interno alla chiusa della villa; raggiungono altissimi livelli di qualità e di tecnica idraulica riscontrabili nei numerosi ninfei, vasche e peschiere, con giochi segreti d'acqua, soluzioni architettoniche variate, arricchite da statue e decorazioni realizzate con mosaici rustici, sassolini di vari colori, conchiglie, con figure grottesche e mostruose. Nei ninfei sono importanti e studiati anche i giochi di luce che penetrano all'interno di queste architetture in cui i fasci luminosi formano arcobaleni con il pulviscolo d'acqua. Ma anche il gioco, il piacere si ricompongono correttamente, in una sorta di senso civico e di rispetto, che è tipico dell'animo lucchese, nei riguardi del prossimo: l'acqua non viene dispersa, non viene alterata, riesce a valle della chiusa a disposizione degli altri.

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Caratteristica è la sua struttura ad anelli semicircolari che scendono dolcemente verso il mare, corrispondenti a tante fasi dello sviluppo urbano. E’ uno dei paesi della Vai di Cecina che meglio conservano l’impianto del castello medievale. Sul territorio sono stati trovati resti di insediamenti etruschi e romani, di cui alcuni reperti si possono vedere nel paese.

Le colline di Casale erano luoghi di insediamenti etruschi e diversi ritrovamenti archeologici sono stati effettuati nel territorio.Il più importante è una tomba a tholos, dei V secolo a.C., asportata e ricostruita nel giardino del Museo Archeologico di Firenze. Da questa tomba provengono, tra l’altro, i due più antichi oggetti d’alabastro di cui si ha notizia, usciti probabilmente dalle officine di Volterra — una patera e un lacrimatoio —, anch’essi al Museo Archeologico di Firenze. Altri reperti si trovano nei musei di Volterra e alla Cinquantina di Cecina. Dell’epoca romana è una piccola villa, nel Botro della Pieve, i materiali della quale sono stati reimpiegati in alcuni edifici dei paese.

Il castello medievale è nominato nei documenti sin dal 1004 e apparteneva ai conti Della Gherardesca, ai quali fanno riferimento i primi documenti di vendita (nei 1004 Gherardo e la moglie Giulia donarono una chiesa e 13 poderi "che sono nella corte di Casale" al monastero di Santa Maria di Serena a Chiusdino; nel 1008 Gherardo dei fu Gherardo vendette case, cascine e masserizie dei distretto della pieve di San Giovanni di Casale, e Wilda, sua moglie, altri beni nello stesso distretto; nel 1092 un conte Gherardo concesse al monastero di Montescudaio una chiesa di Sant’Andrea a Casale).

In realtà esistevano nella zona due castelli dello stesso nome: Casalvecchio, di cui è rimasta solo la collina omonima a sudest dell’attuale paese, e Casalnuovo, l’odierno Casale Marittimo. Non è chiaro quali fossero i rapporti tra i due castelli e per quanto tempo convissero; i documenti più antichi sono senz’altro da riferirsi a Casalvecchio, e così anche una famosa lettera del vescovo di Volterra, del 1344, in cui questi racconta come il conte Gherardo di Donoratico fosse ammalato nel castello di Casale e a causa della cattiva aria non poteva guarire fino a quando non fosse stato portato altrove: "Mandammo li medici [...] e quelli lo consigliarono perché l’aere di Casale era corrotta e per altre ragioni che se d’ivi non si partisse, che egli era in pericolo della vita e veramente secondo che e’ medici ci hanno poi detto di quella infermità non sarebbe campato se non fosse partito." E’ questa una precoce testimonianza della diffusione delle febbri malariche.

Casalvecchio fu distrutto presumibilmente nel 1363 durante una battaglia tra pisani e fiorentini, ma probabilmente già prima era stato gradualmente abbandonato a favore di Casalnuovo che, pur non essendo più alta, era meglio ventilata e più salubre.

Tra i due castelli, sul Botro della Pieve, si trovava la pieve di San Giovanni Battista di Casale, che dà ancora oggi il nome al torrente e a una località. Era la chiesa madre del circondano, l’unica dotata di fonte battesimale, e a lei facevano capo non solo Casalvecchio e Casalnuovo, ma anche Guardistaiio e Montescudaio. Benché fosse stata molto danneggiata - anzi: "[...] demolita et destructa quasi per totum" nei combattimenti dei 1363 e il fonte battesimale in seguito a questa guerra fosse stato trasferito a Casalnuovo - , essa mantenne il titolo di pieve e lo conservò, a quanto pare, addirittura fin verso la metà del ‘500. Nei 1413, al momento di una visita pastorale dei vescovo di Volterra, essa risultò "in totum diruta", cioè totalmente diroccata e solo le mura stavano in piedi, tuttavia era pieve e aveva il pievano. Nei 1439 i battesimi di tutti i bambini dei castelli vicini si tenevano "ogni Sabato Santo al fonte battesimale nella pieve di S. Giovanni Battista in Santo Andrea di Casale", come si rileva da una lettera del vescovo di Volterra, dalla quale risulta che Sant’Andrea ospitava il fonte battesimale senza però disporre del titolo di pieve. Mentre i castelli di Casale erano sotto il dominio politico della Repubblica di Pisa, la pieve dipendeva dalla Diocesi di Volterra.

A Casalvecchio risiedevano dalla metà dei ‘300 circa i conti Montescudaio, ramo della famiglia Gherardesca costituitosi in quel periodo nel castello di Montescudaio. Un loro palazzo o rocca esisteva ancora nell’Ottocento ed è nominato nel Dizionario geografico del Repetti. La struttura del castello era a pianta circolare con una porta a sud munita di antiporti e rampa d’accesso e sovrastata dalla rocca. A nord si trovava una torre d’avvistamento, ancora visibile, ma non sono accertate altre porte. Le mura erano formate dalle case stesse che avevano, e hanno, pareti molto spesse verso l’esterno e poche finestre collocate solo in alto. All’interno - come in altri insediamenti medievali - le case erano addossate l’una all’altra senza regola alcuna e senza alcun rispetto per l’andamento delle strade e prive di sufficiente aereazione. Il castello racchiudeva al suo interno non solo le case e le cantine, le botteghe del macellaio, del fabbro, del barbiere, il forno e il frantoio, ma anche le stalle e i castri per gli animali domestici (asini, porci, galline) e qualche orto. In più c’era la chiesa con l’annesso cimitero e, oltre al palazzo signorile con le stalle, le scuderie e i magazzini, c’erano la stanza del tribunale e le prigioni. Fuori dalle mura restava la fonte con l’abbeveratoio e i lavatoi. La chiesa di Casalnuovo era intitolata a Sant’Andrea ed è nominata per la prima volta nel 1305.

Nel 1406, in seguito alla conquista di Pisa da parte di Firenze, anche Casale, come gli altri paesi della Val di Cecina, si sottomise alla Repubblica fiorentina. Nel 1407 ottenne da Firenze il permesso di costituirsi in Comune, ma contrariamente a quanto avvenne a Montescudaio e Guardistallo, non poté liberarsi dai conti Della Gherardesca-Montescudaio che vi mantennero le loro proprietà e la giurisdizione. La piccola comunità non si diede subito gli statuti, ma nel 1414 accettò quelli di Montescudaio e Guardistallo e anche successivamente, dal 1490 fin al 1620, i suoi statuti erano sempre compresi in quelli degli altri due Comuni.

Sul Cinquecento e il Seicento mancano notizie di qualche interesse; sono secoli caratterizzati dalla difesa contro le incursioni dei pirati saraceni, dalla lotta contro la malaria che infestava la pianura costiera e risaliva ai paesi, dalle periodiche carestie ed epidemie e dalla stasi sociale ed economica che contraddistingue in queste zone il Granducato mediceo. Tutti questi fattori hanno sicuramente reso difficili le condizioni di vita della popolazione.

Nel 1551 Casale aveva 245 abitanti.

Del 1642 è la notizia che la comunità deliberò la fortificazione delle mura a difesa dalle incursioni dei pirati dal mare. Nel 1648, sulla scia di Montescudaio, Casale venne dato in feudo ai Ridolfi e nel 1738 andò a far parte del marchesato di Riparbella, assegnato in feudo al conte Carlo Ginori.

All’inizio del Settecento le campagne versavano in uno stato di estrema povertà e arretratezza. Vaste terre rimanevano riservate alla caccia del feudatario e i boschi avanzavano. Nel 1709 "fu proposto come sarebbe stato molto necessario munirsi all’occasione di un medico, stante l’aria cattiva, e le multità dei malati che spesso ne muoiono miseramente senza esperimenta." Ciononostante Casale si trovava forse in condizioni migliori di tanti altri paesi dal momento che il Targioni Tozzetti, che lo visitò nel 1742, scrisse: "Casale moderno è il più grosso, e più salubre Castello di tutto il Marchesato. La ragione della salubrità è non solamente una vicina Fontana d’acqua buona, come anche la situazione favorevole in uno sporto di Collina elevata, e benissimo ventilata." Nel 1745 gli abitanti erano 315.

Nel 1777, con le riforme del granduca Pietro Leopoldo, ebbe inizio il processo di ridistribuzione delle terre e conseguentemente il loro accentramento nelle mani di alcune nuove famiglie facoltose: emergevano a Casale i nomi dei Cancellieri, degli Sparapani, dei Mannari e dei Marchionneschi, che in seguito hanno detenuto il potere nel Comune per tutto l’Ottocento e fino alla prima metà del nostro secolo. La concentrazione delle terre e la diffusione del regime della mezzadria portavano a un incremento e a un miglioramento della produzione agricola. Nel XIX secolo ancora infuriava la malaria, le case in campagna non esistevano, i lupi erano così abbondanti che nel 1810 un decreto governativo liberava la caccia al lupo da ogni vincolo, ma nel paese il numero degli abitanti iniziava a salire: erano 817 nel 1833 e vent’anni dopo, nel 1854, ammontavano a 1.070 unità; nel 1861 il numero era salito a 1.174. La progressiva bonifica della palude costiera favoriva lo sviluppo agricolo.

Nella seconda metà dell’Ottocento l’abitato subiva alcune importanti modificazioni dovute all’aumento della popolazione: nel 1854 venne demolita la porta meridionale per costruire la Torre Civica con l’orologio; nel 1872 si iniziò la costruzione della nuova chiesa che comportava l’abbattimento di una parte del muro di cinta e del vecchio municipio per aprire un varco alla nuova strada. La vecchia chiesa veniva trasformata in municipio. Il camposanto scompariva sotto il nuovo campanile, ma già neI 1855 era stato inaugurato un nuovo cimitero lungo la strada per Guardistallo. Contemporaneamente era cresciuto anche il borgo fuori dalle mura e all’inizio del ‘900 venne sistemata la piazza del Popolo, allora piazza Cancellieri. Il paese assumeva più o meno l’aspetto attuale.

Nel 1862, Casale, fino allora chiamato "Casale nelle Maremme", assunse il nome di "Casale di VaI di Cecina"; dal 1900 si chiama "Casale Marittimo".Nel 1936 il numero degli abitanti ha raggiunto il limite massimo di 1.583; ma negli anni ‘50 è iniziato il processo di emigrazione verso i centri in pianura che erano in rapido sviluppo e garantivano posti di lavoro sicuri, orari fissi, mansioni meno pesanti di quelle richieste al mezzadro in campagna.

All’inizio degli anni ‘60 il fenomeno dell’abbandono della terra era all’apice e il regime della mezzadria andava scomparendo. Soprattutto i giovani si stabilivano in pianura o emigravano verso le città dell’Italia settentrionale.

Nel 1971 il numero degli abitanti era sceso a 837. Il rischio di diventare un "paese di vecchi" era attenuato solo dal fatto che molti abitanti risanavano, con i soldi guadagnati fuori, le case del paese, corredandole di moderni comfort.

Oggi Casale ha 914 abitanti. L’economia è agricola e si producono soprattutto vino, olio e cereali; esistono anche un’azienda di apicultura, un laboratorio di pellicce e diversi servizi commerciali e di ristoro. L’aspetto del paese medievale è ben conservato e la sensibilizzazione per i valori storici ha fatto sì che alcuni ammodernamenti degli anni ‘60 siano stati rimossi, come la copertura delle vie in asfalto che nel 1989 è stata tolta riscoprendo il vecchio lastricato in pietra arenaria.

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Massa Marittima è una delle maggiori località turistiche della Toscana; la città infatti sorge in un territorio di particolare bellezza e interesse, quello delle Colline Metallifere.

Immersa nella Maremma toscana, a 20 km dal mare, Massa Marittima, centro culturale delle "Colline Metallifere", si trova ad un'altitudine di 380 mt. Il comune si estende su una superficie di 284 km2 ed ha una popolazione di circa 8800 abitanti, che vive su un territorio di grande pregio naturalistico, con boschi cedui, macchia mediterranea, campi dedicati all'agricoltura e al pascolo.

Gli Etruschi furono i primi a sfruttare la zona mineraria e intorno al 750 a.C. l'estrazione dei minerali portò questo popolo a essere il più ricco dell'Italia centrale. Le città di Populonia e Vetulonia spinsero i domìni verso le Colline Metallifere. Populonia traeva la ricchezza dal minerale ferroso estratto, dal IV secolo a.C., nell'Isola d'Elba; da Vetulonia, invece, partirono molti degli abitanti per andare a stabilirsi nei villaggi intorno all'attuale Massa Marittima (tanto che, nelle vicinanze del lago dell'Accesa, sono state ritrovate tracce di questa presenza). In queste terre abbondavano minerali ricchi di argento e di rame. E i ritrovamenti effettuati attestano una continuità nel trattamento dei minerali, che non è tanto diverso da quello delle moderne acciaierie e fonderie; sono state ritrovati, infatti, resti di forni fusori e, sempre intorno al lago dell'Accesa, le fondamenta di un abitato del VI secolo a.C. dove vivevano probabilmente i dirigenti di una miniera. Gli Etruschi trasformavano quei minerali ricchi di oro, ferro, argento, piombo, rame, in monili e oggetti di vario uso.

Gli scavi, condotti periodicamente dal 1980, hanno riportato alla luce, sull'altura a sud-est del lago, numerosi quartieri abitativi, dei quali sono visibili solo le fondazioni degli edifici.

Si tratta di nuclei comprendenti circa dieci case ciascuno, generalmente di due o tre vani. La tecnica costruttiva era quella tipica degli abitati etruschi: fondazioni di pietre connesse a secco e alzato in mattoni crudi o realizzato con la tecnica del graticcio (pali di legno, paglia e argilla); tetto con tegole e coppi; pavimento in argilla battuta. Nel villaggio sono state rinvenute tracce di attività collegate all'estrazione e alla lavorazione minerali, rappresentate soprattutto da scorie di fusione. 

L'insediamento, che ha avuto la durata di circa un secolo (fine VII - inizio VI sec. a.C. fino alla fine del VI), dipendeva da Vetulonia. La sua fine va messa in connessione con la perdita del controllo sulle zone minerarie da parte di Vetulonia a favore di altri centri, in particolare di Populonia. 

Dopo gli Etruschi, i Romani proseguirono lo sfruttamento anche se in maniera minore. Con le invasioni barbariche e la distruzione di numerosi centri abitati, si ebbe l'abbandono delle miniere fino al Medioevo. Le scorrerie barbariche e quelle dei pirati e dei saraceni misero in ginocchio Populonia, la cui diocesi fu trasferita, intorno all'XI secolo, a Massa.

L'attività riprese grazie all'arrivo dei maestri lombardi, in particolare comacini, alla manodopera tirolese, sassone e altoatesina. Non a caso, Montieri, dominato dai vescovo di Volterra, in questo periodo vide aumentare l'importanza delle proprie miniere e Siena acquistò una parte delle argenterie di Montieri per coniare le monete. L'estrazione dei minerali di rame, zinco, piombo e in particolare argento, ebbe dunque un notevole impulso nel periodo medievale.

Il massimo splendore di Massa Marittima come centro minerario si ebbe tra il 1200 e il 1350; per il suo patrimonio, infatti, era chiamata “Massa Metallorum” (la città dei metalli). Nel 1225, la città divenne libero comune, riscattandosi, in virtù della ricchezza che gli veniva dalle sue miniere, dalla signoria dei Vescovi e per oltre cento anni riuscì a mantenere la sua indipendenza.

Ebbe una propria zecca, propri pesi e misure e dette all'Europa il primo Codice Minerario della storia: "ORDINAMENTA SUPER ARTE FOSSARUM RAMERIAE ARGENTERIAE CIVITAS MASSAE" (sec. XIII), stupendo esempio di legislazione che regolava lo sfruttamento dei campi minerari, testimonianza dell'altissimo grado di evoluzione raggiunto dal paese sia sotto il profilo giuridico che nella capacità di gestione delle risorse del sottosuolo.

Dalla metà del XIV sec. le guerre, le pestilenze, la soggezione a Siena posero fine per quattro secoli all'attività mineraria in Maremma; la Repubblica di Siena e successivamente i Medici, quando subentrano al potere, considerarono la regione come una colonia e la ridussero in uno stato di estremo degrado.

Solo a partire dal 1830 circa l'area entrò in una fase di ripresa, soprattutto grazie alla vasta azione di riforme e bonifiche intrapresa dai Lorena. Fu il Granduca Leopoldo II che rilasciò le concessioni per i primi tentativi di indagine mineraria nella zona: questi sfociarono in fallimenti poiché le avverse condizioni dell'ambiente, ancora afflitto dalla malaria, non permisero mai di ottenere risultati concreti dopo le pur fruttuose ricerche. A partire dal 1860 finalmente nacque una società, la "Fenice Massetana'', che sfruttò in modo redditizio i filoni di pirite nella zona del lago dell'Accesa.

Allo scadere del secolo comparve in Maremma la "Società Montecatini" (che assunse il nome dalla sua prima miniera, sita a Montecatini di Val di Cecina, in provincia di Pisa), che nel giro di poco tempo acquistò la maggior parte delle miniere del comprensorio e ne incrementò la produzione dando impulso, negli anni, anche ad un settore chimico che utilizzava il prodotto primo proveniente dalla lavorazione della pirite: l'acido solforico.

Il resto è storia recente: le miniere sono state per decenni l'asse portante dell'economia locale, che poggiava quasi totalmente sull'industria estrattiva e sulla collaterale attività di trattamento dei solfuri; questo settore ha conosciuto una fase di grave declino, le miniere sono state tutte chiuse e Massa Marittima sta cercando di rilanciare la propria economia con il turismo.

Visitando la città incontriamo monumenti e architetture di estrema particolarità, come il Duomo di San Cerbone che, costruito nel 1200 in stile romanico, oggi custodisce alcune importanti opere d'arte, come una vetrata realizzata nel 1300 rappresentante il Redentore in Gloria e le Storie di San Cerbone, un affresco risalente anch'esso al trecento e raffigurante la Madonna in Trono Col Bambino, affreschi che hanno come soggetto la Crocefissione, la Madonna in Gloria con i Santi Giuseppe e Bernardino con due Monaci, attribuito al Nasini, San Cerbone con le Oche; all'interno della Cattedrale troviamo inoltre una Fonte battesimale, alcune colonne sormontate dalle figure di un Grifone, un uomo con la barba ed un cavallo, un Crocifisso in legno realizzato da Giovanni Pisano ed infine ben 11 statue di piccole dimensioni raffiguranti Santi e Profeti, che insieme ad alcuni affreschi si trovano all'interno della Cripta.

Sulla Piazza di fronte al Duomo troviamo inoltre il Palazzo del Pretorio, costruito nel XIII secolo, il Palazzo dei Conti Biserno ed il Palazzo Medievale del Comune; una delle principali peculiarità della città toscana è quella di dividersi in due parti: la parte più antica, circondata dalle mura è la Città Vecchia, all'interno della quale troviamo la Casa di San Bernardino e la Palazzina della Zecca, antico edificio dove venivano coniate le monete, mentre, al di fuori della cinta muraria incontriamo la Chiesa di San Francesco, in stile gotico, la Chiesa di Sant'Agostino, al Chiesa di San Rocco, costruita intorno al 1400 ed infine il Palazzo rinascimentale delle Armi, che costituiscono invece la Città Nuova.

Numerosi musei sono stati allestiti a Massa Marittima: il Museo Archeologico, il Museo della Miniera, il Museo di Arte e Storia della Miniera, il Parco Archeologico del lago dell'Accesa, l'Antico Frantoio e l'Antica Falegnameria.

Le origini della città sono da collocarsi nell'Alto Medioevo, fu costruita nel territorio del Monte Regio ed intorno all'anno Mille assunse una notevole importanza divenendo sede Vescovile; Massa Marittima divenne successivamente Libero Comune, ma fu comunque conquistata e controllata da Pisa, Siena e da Firenze, sotto il dominio della quale entrò a far parte dei possedimenti del Granducato di Toscana.

Un altro elemento di vanto per la città è sicuramente l'assegnazione della Medaglia al Valore Militare, per il coraggio e l'attività svolta dalla popolazione negli anni del Secondo Conflitto Mondiale.

La città è famosa anche per il suo vino DOC, il Monteregio di Massa Marittima, costituito per la maggior parte dalla tipologia di Sangiovese per il rosso e di Trebbiano Toscano per il bianco; famosi sono anche i dolci che vengono prodotti a Massa Marittima, come il Panforte, i Cavallucci e i Ricciarelli.

 

Piccola guida per la ricerca delle proprie soluzioni per le vacanze a Cecina.

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Castagneto Carducci, piccolo borgo una volta circondato dalle mura, si trova sulla sommità di una collina, dominato dal Castello dei Conti Della Gherardesca. Il centro urbano è sviluppato secondo uno schema di anelli concentrici che sfociano in un insieme di strade, vicoli e piazzette che riportano nel passato, di cui possiamo ancora trovare antiche testimonianze. Castagneto, che comprende anche i comuni di Bolgheri, Donoratico e Marina di Donoratico, riunisce nel suo territorio una notevole varietà di ambienti naturali: la spiaggia, le pinete della costa, le zone che ricordano l'antica Maremma, la campagna punteggiata di ville, i poderi e le case coloniche, le colline dalle forme e dai colori tipicamente toscani, i vicoli antichi del paese.

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Un isolotto, o più esattamente un affioramento roccioso circondato da scogli a fior d'acqua nell'Alto Tirreno, lungo nove chilometri e largo due, di fronte a Livorno da cui dista per un breve tratto di mare: questa è la Meloria, celeberrima per la battaglia del 6 agosto 1284 che segnò la grande sconfitta della flotta pisana perpetrata da quella genovese. Ma la Meloria è anche un luogo, dall'antichità ad oggi, straordinario per il paesaggio e la natura, per i particolari morfologici che la contraddistinguono. In questo libro, un famoso esploratore dei mari esotici e del Mediterraneo in particolare, come Folco Quilici, una storica allieva di Marco Tangheroni, come Olimpia Vaccari, e un naturalista livornese, come Gianfranco Barsotti, che della Meloria e della natura al di sotto del suo mare conosce tutto, ci restituiscono di questo luogo che appartiene all'immaginario collettivo della civiltà del Mediterraneo gli aspetti più importanti. Il libro ha inoltre nelle fotografie di Fabio Taccola, per la parte emersa, e di Guglielmo Cicerchia e Federico Fiorillo, per la parte sommersa, immagini straordinarie e altamente suggestive.

 

Maledetta meloria

di Renzo Castelli

Brucia ancora la sconfitta con Genova, sette secoli dopo. Forse è tempo di farsene una ragione... Non sono il tifo sportivo, né le tradizioni spesso un po’ posticce sospinte dal turismo, a disegnare la vera anima di una città. Nel caso di Pisa, la sua “pisanità”. In poche città, come in questa, la storia, e quindi il passato remoto, hanno lasciato un segno così marcato e condizionante. Pisa ha troppa memoria - l’origine etrusca, la grandezza della sua marineria - per dimenticare. Ecco perché ancora oggi la Meloria non è soltanto il nome di una battaglia finita in disfatta, una delle molte che l’uomo ha combattuto in terra e sul mare, ma rappresenta la morte di una città-Stato, l’umiliazione dei suoi cittadini. Con la Meloria (1284) Pisa ha perduto l’orgoglio, i sogni, la regalità, e mai più potrà dimenticare il perduto potere. La città-stato ha chinato la testa, forse per sempre, e non dimenticherà mai più. Pisa, che era stata (Rudolf Borchardt) “un impero di vele”, resta nei secoli dei secoli una città sconfitta, umiliata, delusa. Pisa, ovvero l’orgoglio ferito. Non fu solo la Meloria a scavare il grande solco che proietta la sua ombra fino a noi. Ai 12 mila morti della battaglia che cancellarono l’anima della grande città-stato, si aggiunsero i 6mila prigionieri portati in catene nel carcere genovese del Modulo che provocarono una crisi demografica che parve irreparabile. “Questa situazione - precisa lo storico Emilio Tolaini - determinò un forte incremento immigrativo dal contado che consentì di ricostruire in qualche modo la rete dei traffici”. Ma il ritorno ad una seminormalità non fu vera gloria: appena un secolo dopo, infatti, i fiorentini compreranno Pisa e il suo porto. 

Se è vero che ogni città ha un’anima propria che è la risultante delle anime di coloro che vi hanno sempre vissuto, molti concordano nel dire che Pisa conserva ancora una scontrosità che è figlia della sconfitta più bruciante. Scontrosa, dunque, e superba: così la giudicò Borchardt nel secolo scorso, e il giudizio resta attuale. Per questi motivi, nell’effervescente e inventiva Toscana, nella blasfema Toscana, Pisa si colloca con caratteri diversi da ogni altro campanile. La “pisanità”, ancora oggi, significa diffidenza perché diffidenza è figlia dell’orgoglio ferito. Non a caso Curzio Malaparte, nel disegnare i suoi Maledetti Toscani, glissò del tutto su Pisa. Confesserà: “Non li capisco, questi pisani. Hanno un carattere sfuggente, insincero. Sembra quasi che debbano farsi perdonare qualcosa. Ma cosa?”. La risposta sarebbe stata la stessa di oggi: farsi perdonare di avere perduto. Eppure Malaparte adorava Pisa, i suoi silenzi notturni ma anche il vociare degli studenti, la straordinaria bellezza dei marmi e l’Arno che fluiva al mare. Anche se di quel fiume preferiva le burrasche e il ghiaccio dell’inverno perché la “torba” voleva dire l’ingresso in Arno delle cèe. E per un piatto di cèe consumato in piazza Garibaldi, nell’osteria di Nilo Montanari, Malaparte avrebbe dato l’anima. (Non sapete cosa sono le cèe? Non possiamo spiegarvelo: venite a Pisa e capirete). E con l’oste amico, Malaparte si confidava: “Siete una razza strana, ma cucinate bene”. 

Dante provvide a suo tempo e con una certa efficacia a denunciare l’orribile colpa dei pisani. Dopo la Meloria, il conte Ugolino della Gherardesca, ritenuto responsabile per imperizia o per tradimento di quella sconfitta, fu rinchiuso, fino a morire di fame, con i figli ed i nipoti nella storica torre di piazza delle Sette Vie (oggi, Cavalieri di Santo Stefano). L’invettiva dantesca è forte, ma se il sommo poeta avesse conosciuto il seguito avrebbe scritto cose anche peggiori. Le ossa del conte Ugolino, infatti, furono poi sotterrate in faccia al fiume sui lungarni di Tramontana e quel terreno restò per sempre maledetto. Chi oggi visiti Pisa e percorra i suoi lungarni, scoprirà che la lunga teoria dei palazzi è interrotta, poco prima della chiesa del Santo Sepolcro, da un giardino, l’unico che si affacci sul lungarno. Ma non è un giardino, e non è un cimitero: è terra maledetta. Perché i pisani non dimenticano. Neppure oggi che le ossa del conte hanno trovato pace - si spera - nel convento di San Francesco, su quel terreno non sarà mai consentito di costruire niente. 

No, Pisa non può essere considerata una città “normale”, come bene intese Malaparte. Dice il professor Silvano Burgalassi, sociologo e massimo cultore dell’anima pisana: “Pisa vive del passato e non riesce ad esprimere i valori di arte, di spiritualità, d’intelligenza dei quali pure è portatrice. È una sorta di freno, quasi di maledizione della quale non sappiamo liberarci. Oggi non potremmo più fare la piazza del Duomo o i lungarni perché mancherebbe la capacità d’ispirazione che ebbero i pisani prima della Meloria, quando dominavano i mari e vedevano in questa loro missione qualcosa di divino che dovesse essere degnamente celebrato. Da allora, l’anima pisana è malata di orgoglio ferito e non è capace di esprimere una profondità di pensiero che sia in sintonia con i propri tempi”. 

Eppure Pisa oggi avrebbe tanto di cui vantarsi. Ha tutti i requisiti per essere una città felice: un clima mite, il mare a dieci chilometri, la collina a sette, la montagna per lo sci a meno di un’ora; ha una posizione baricentrica, un aeroporto internazionale, un porto (il “porto di Pisa”, che alcuni chiamano Livorno) a 20 chilometri; ha tre università prestigiose e uno dei più grandi nuclei nazionali del Cnr, infine ha musei e monumenti che tutto il mondo ci invidia. Ma non è una città felice. 

Quanto dovrà passare perché Pisa ritrovi la sua serenità, dimentichi la sua sconfitta e il suo impero perduto, perché la “pisanità” diventi finalmente un sentimento positivo? Nessuno può dirlo. Ma non sarà certo il folklore a guarire l’orgoglio ferito. I pisani contemporanei hanno in uggia quel falso folklore che simula, una volta all’anno, i fasti di una repubblica marinara che non c’è più. Anzi, considerano quella regata un po’ blasfema, un confronto di muscolosi atleti che non ha il diritto di evocare il fasto di un’epoca. 

Eppure la “pisanità” malata, questo umore scontroso, questo malessere del presente, sfugge spesso ai visitatori. Se Malaparte fu diffidente di Pisa e dei pisani, altri visitatori trovarono invece una grande serenità nei silenzi della città, nel suo pathos. 

Scriveva Elizabeth Barrett: “Pisa, ecco una delle piccole, deliziose città del silenzio. Strade sonnacchiose dove cresce l’erba fra pietra e pietra, dove ruzzano nella solitudine gruppetti di ragazzi”. Vista dagli altri, Pisa può veramente apparire così, tenera e silenziosa più che altera e scontrosa. E allora, per animi tormentati, Pisa può essere l’ideale: se il suo orgoglio ferito non traspare, resta intatta quella profumata aurea da oasi che si respira nelle strade e nelle piazze, tanto che Shelley poté trovare l’ispirazione per comporvi l’elegia In morte di Keats e Leopardi scrivere in una notte di aprile, profumata di glicine, la poesia A Silvia.

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Le prime testimonianze storiche di Castellina iniziano con un nucleo abitativo Etrusco posto sul colle di Salivolpi dove attualmente sono visibili un pozzo artesiano e i resti del muro di cinta dell'insediamento. Il vicino tumulo di Monte Calvario con quattro tombe a camera disposte a croce secondo i punti cardinali, avallano l'ipotesi dell'importanza del sito nei secoli VII e VI A.C. .

Di entità rilevante anche la necropoli del Poggino in località Fonterutoli riportata alla luce da pochi anni dal locale Gruppo Archeologico. Il borgo di Castellina, nella attuale locazione, ha probabili origini romane, ma si perdono le tracce nel corso dei secoli fino all'importanza strategico - militare che ebbe nell'Alto Medioevo. La storia parla della Castellina dei Trebbiesi dell'XI secolo, nome dato dai nobili del Trebbio della consorteria dei Conti Guidi, proprietari di un castello nelle vicinanze i cui labili resti sono visibili da Badiola. Nel XII secolo diventa un importante presidio militare fiorentino, posto a confine fra gli stati di Firenze e di Siena. Centro principale dell' antica Lega del Chianti con Radda e Gaiole nel XIII secolo, successivamente, nei secoli XIV e XV Castellina è teatro di incursioni e saccheggi da parte dello stato senese. Tali eventi obbligarono i Fiorentini a porre in opera continue ristrutturazioni e rafforzamenti della cinta muraria affidandone la direzione dei lavori a famosi architetti tra i quali Filippo Brunelleschi. 

Nel 1478, mentre Firenze è in guerra a causa della congiura dei Pazzi, a Castellina viene inviato Giuliano da Sangallo a rafforzare nuovamente le strutture di difesa: di questo episodio vi è una cronaca esauriente nelle "Vite" del Vasari. Baldassar Castiglione nel suo "Cortegiano" descrive invece un assedio di quaranta giorni da parte del Duca di Calabria, avversario mediceo, dove vennero usate le artiglieriedell'epoca come bombarde , catapulte e proiettili "medicati" capaci di causare epidemie e pestilenze. Dopo la fine della guerra fiorentina Castellina torna ai Medici nel 1483. Nel XVI secolo il paese perde la sua importanza strategica . La guerra fra Siena e Firenze è terminata e l'unificazione della Toscana in Granducato di Cosimo I dei Medici trasforma il vecchio avamposto militare in centro rurale strutturato secondo i canoni del podere a mezzadria. Nel 1865 nasce il comune di Castellina e la sua sede viene trasferita nel 1927 nella restaurata rocca Medievale di piazza del Comune. La seconda guerra mondiale vede il paese teatro del passaggio del fronte. I bombardamenti distruggono l'antica porta Fiorentina all'estremo nord di via Ferruccio e l'attigua Chiesa Parrocchiale viene seriamente danneggiata, facciata e campanile vengono ricostruiti e modificati nella forma attuale alla fine del conflitto

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