Il nome Montescudaio viene dal latino Mons Scutarius o Mons Scutaris, ma l’insediamento è molto più antico e risale all’epoca villanoviana, ai primi stadi della formazione della civiltà etrusca. In una tomba nei pressi del paese fu trovata un’urna cineraria del IX o X secolo a.C. che per la sua pregevole e singolare decorazione con figure plastiche sul coperchio costituisce una testimonianza unica e molto importante di quell’epoca. Si trova, insieme ad altre suppellettili, al Museo Archeologico di Firenze.
I primi documenti storici si hanno intorno all’anno Mille, quando il “castello”, vale a dire il paese fortificato e circondato di mura, apparteneva ai conti della Gherardesca. In quel periodo i conti si insediarono stabilmente a Montescudaio, dove costruirono un palazzo o una rocca e, a partire dal Trecento, diedero origine a un proprio ramo della casata, che prese il nome dal paese: i conti di Montescudaio. Era, a quanto pare, una stirpe particolarmente spavalda e irruenta, discendente da tale Giovanni Della Gherardesca che per la sua scarsa prestanza fisica era chiamato “il Bacarozzo”. Già nel 1305 i figli del Bacarozzo furono denunciati perché avevano compiuto scorrerie e furti di bestiame nel territorio volterrano. Nel 1345 i Montescudaio, alleati con la Repubblica di Pisa e da essa nominati vicari in Maremma, furono protagonisti di un clamoroso episodio di tradimento: con lettere contraffatte indussero i castelli della loro giurisdizione, Montescudaio, Guardistallo, Bibbona, Rosignano, Vada e Fauglia a ribellarsi contro Pisa stessa. Ovviamente la rivolta fu domata perché non molto tempo dopo i Montescudaio furono di nuovo accettati a Pisa, dove più tardi ebbero un ruolo non secondario nella lotta tra le fazioni per il potere nella città. Nel 1395-96 si rivoltarono di nuovo contro la Repubblica compiendo scorrerie nel territorio pisano, ora spalleggiati da Firenze.
Nel 1406 quando Pisa con tutto il contado venne venduta a Firenze, i conti si affrettarono a farsi accreditare anche in questa città e vennero nuovamente nominati vicari in Maremma. Ma gli abitanti di Montescudaio riuscirono in questa circostanza a liberarsi di loro, sottomettendosi volontariamente alla Repubblica fiorentina dalla quale ebbero il permesso di costituirsi in Comune. Nel gennaio 1406, infatti, una delegazione di quattro uomini di Montescudaio, insieme a un’altra di Guardistallo, partì per Firenze per trattare la sottomissione. I rappresentanti ottennero non solo l’autorizzazione a costituirsi in Comune e a redigere i propri statuti, ma anche l’estromissione dei conti, ai quali venne imposto il divieto di entrare nel castello di Montescudaio.
Il territorio del Comune era costituito da piccole proprietà private e da vaste aree comunali — in gran parte pascoli e boschi — che venivano sfruttate collettivamente. Gli abitanti di Montescudaio potevano far pascolare le bestie e tagliare la legna per proprio uso dietro pagamento di una somma stabilita dagli statuti e da versare al camarlengo della comunità. La caccia e la pesca erano libere.
Gli statuti — che valevano sia per Montescudaio che per Guardistallo e dal 1414 anche per Casale Marittimo — regolavano le elezioni dei consoli (la massima carica governativa, i cui nomi venivano estratti da una borsa), e dei consiglieri, eletti a voce. Gli statuti definivano i diversi incarichi comunali e stabilivano le pene e le multe, le quali, oltre ai canoni per i pascoli, costituivano una delle entrate maggiori del Comune. Veniva multato ogni tipo di trasgressione: giocare alla palla in piazza, bestemmiare, fare lordura in paese, mandare le bestie al pascolo fuori dai tempi e dai confini stabiliti, ma poteva essere multato anche un operaio che, per esempio, aveva in affitto una terra comunale e la lavorava poco o male.
Gli statuti regolavano anche la vita dei paesani durante le stagioni:
in marzo avevano l’obbligo di fare l’orto, da maggio i “viari” dovevano occuparsi delle strade, a settembre si potevano assoldare le guardie comunali per vegliare le vigne e i fichi. Si stabiliva inoltre il numero di bestie che ogni famiglia poteva mandare sul pascolo, si regolava la macellazione e la vendita delle carni e si decretava che le stoppie e le ghiande fossero riservate ai maiali, gli animali più importanti per l’alimentazione familiare che potevano anche circolare liberamente in paese.
Per quanto riguarda le norme d’igiene, non si dovevano abbeverare gli animali nella fonte riservata agli uomini e gli abitanti avevano l’obbligo di spazzare l’uscio davanti a casa, soprattutto la domenica. Quando le acque sporche venivano versate in strada bisognava avvertire in anticipo e in particolare di notte si doveva gridare tre volte “acqua” prima di rovesciare qualcosa sul selciato.
La comunità subì diverse invasioni e devastazioni. Nel 1447 venne assalita e saccheggiata dalle truppe di Alfonso d’Aragona, re di Napoli, in guerra con Firenze. L’invasione, tra l’altro, fu resa possibile da un altro tradimento dei conti di Montescudaio che si erano alleati con gli Aragona facilitando così la caduta dei castelli maremmani. Nel 1478 Montescudaio subì l’invasione da parte di Ferdinando d’Aragona, figlio di Alfunso, e l’anno dopo, venne saccheggiato dalle stesse truppe fiorentine, partite per riconquistarlo. In seguito a trattative, gli abitanti riuscirono almeno a evitare l’incendio del castello.
L’epoca del Comune terminò nel 1648, quando i Medici fecero di tutta l’area un feudo che venne concesso al marchese Ridolfi di Firenze e a essi riconfermato ancora dai Lorena nel 1738. Il terreno tornò allora a essere proprietà del “Signor padrone”, la caccia e la pesca furono di nuovo privilegi del feudatario. Il marchese Ridolfi le vietò con un decreto del 1778 in tutto il suo territorio, provocando un accesa protesta della popolazione.
Un’altra parte dei boschi era vincolata dalle Regie Ferriere della Magona a Cecina, stabilimento per la fusione e la lavorazione del ferro, che aveva il diritto esclusivo dello sfruttamento dei boschi circostanti per approvvigionarsi della legna necessaria alla conduzione dei forni.
Il XVII e il XVIII furono perciò secoli alquanto difficili per gli uomini di Montescudaio. I feudi vennero aboliti con la legge del 1749, introdotta dai Lorena, e a partire dal 1770 iniziarono a Montescudaio le vendite e le concessioni in affitto dei terreni sia granducali che comunali nell’àmbito della riforma agraria del granduca Pietro Leopoldo. La riforma si proponeva una nuova e più capillare distribuzione delle terre per favorire una coltivazione più razionale e intensiva, aiutata anche dalle nuove tecniche agricole. Si raggiunse infatti questo scopo, ma non a vantaggio della popolazione del castello, bensì creando un nuovo ceto di proprietari terrieri, i quali facevano lavorare i campi a giornata oppure a mezzadria. Gli abitanti di Montescudaio avevano tentato di opporsi alla privatizzazione dei terreni comunali mandando una supplica al provveditore di Pisa, nella quale esprimevano la loro preoccupazione che le terre potessero finire in mano a pochi possidenti che avrebbero potuto chiedere pagamenti eccessivi per pascolo, coltivazione e legna o negarle del tutto. Alla popolazione sarebbe stato così messo “il gancio alla gola”. La supplica fu respinta come immotivata, ma in realtà più della metà delle terre comunali di Montescudaio venne assegnata a due soli proprietari, il Guerrini di Montescudaio e Vincenzo Cancellieri di Casale.
Nel 1846 l’agglomerato delle case più antiche del castello venne distrutto da un violento terremoto. Mentre il borgo, che si estendeva a sud verso la vallata, si salvò in gran parte, in alto tutte le case crollarono e anche la chiesa di Santa Maria, appena ampliata e ornata, fu rovinata. Otto persone morirono sotto le macerie.
Il granduca nella sua visita alle zone terremotate si fermò anche a Montescudaio stanziando fondi per la ricostruzione.
Un’altra scossa di terremoto colpì l’abitato nel 1871 e distrusse completamente ciò che era rimasto anche parzialmente in piedi, come gli avanzi del vecchio palazzo dei Montescudaio.
Nell’Ottocento si ebbe un notevole incremento demografico, anche se la situazione economica rimaneva difficile (nel 1784, si contavano 434 abitanti; nel 1825, 707; nel 1841, 1.008 e nel 1901, 1.931). Dopo l’Unità d’italia le tasse erano molto gravose, i redditi bassi e basse anche le entrate del Comune. Il numero dei “miserabili” aumentava notevolmente. Si registravano spostamenti tra i paesi di manodopera, in cerca di lavoro, anche stagionale. L’attività era prevalentemente agricola e i prodotti principali erano, come da secoli, l’olio e il vino. All’inizio del Novecento il vino costituiva un prodotto importante nel commercio provinciale.
Montescudaio ha raggiunto il massimo degli abitanti nel 1927 con 2.880 unità. Dopo la seconda guerra mondiale si è verificato il crollo demografico dovuto all’emigrazione verso i nuovi centri industriali e commerciali lungo la costa, Cecina e Rosignano (nel 1951 Montescudaio annoverava 2.010 abitanti; mentre nel 1967, soltanto 1.298). Il Comune è comunque riuscito a controbilanciare la perdita con il nuovo insediamento del Fiorino, località al confine con Cecina, e la vicina zona industriale di Poggio Gagliardo. Così nell’ultimo censimento si è verificato persino un lieve aumento del numero degli abitanti. Rimane il problema dell’invecchiamento della popolazione: il 40% dei residenti ha più di 60 anni.
Oltre all’attività artigianale e industriale a Poggio Gagliardo, Montescudaio ha registrato un notevole sviluppo nel campo del turismo con nuovi complessi residenziali lungo la strada per Cecina.
Da 19 anni Montescudaio produce un vino DOC, rosso e bianco, che può essere acquistato nelle dieci aziende agricole che formano il consorzio del vino Doc di Montescudaio (ricavato dalle uve dei vitigni Sangiovese, Trebbiano, Malvasia, Canaiolo rosso e Ciliegino per il rosso; Trebbiano, Malvasia, Vermentino e Canaiolo bianco per il bianco. La produzione è di 6.000 ettolitri l’anno.
Tratto da Guida alla Val di Cecina, a cura di Susanne Mordhorst, Nuova Immagine Editrice
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