Immensa la Toscana e non per la dimensione geografica, ragguardevole; immensa per i caratteri del paesaggio, delle opere, degli usi, dei prodotti che sono, in una misura senza possibilità di raffronto, “marchiati” appunto dalla presenza continua, avvincente e multiforme, dell’uomo individuo; e quindi, a loro volta, diversissimi e mutevoli.
I toscani sono, da sempre, in programmatica polemica l’uno con l’altro, l’uno per l’altro, l’uno contro l’altro. Guelfi e ghibellini: guelfi bianchi e guelfi neri; ghibellini grandi e ghibellini minimi – magnati, mercanti e artigiani; arti maggiori e minori; grassi e minuti; in ogni “fenomeno” di Toscana si evidenzia l’esasperato individualismo, in un continuo sormontarsi, unire e dividere, distinguere, precisare, proporre e contestare. Degli “stanti a sé” le città, i paesi, gli uomini; tre colli uno stato, un pugno di case libero comune, un giuoco il palio.
Benedetti. Proprio da questa irriducibile volontà di indipendenza hanno origine le chiese, i palazzi, i monumenti, spinti sempre al meglio per l’affermazione della propria “parte”.
Non è luogo in Toscana, per quanto piccolo e povero e distante e isolato, in cui non ti attenda la sorpresa di un polittico, di una maiolica, di un affresco, degni, per magnificenza d’arte, di figurare in cattedrali o in raccolte cittadine (ricordi e realizzi in questo momento le parole di Voltaire: essere liberi significa essere capaci).
Gli stessi caratteri negli usi – oggetto, al solito, del nostro maggiore interesse – “di tavola”. Una cucina dritta, maschia, e senza tentennamenti, da che la si può misurare sulla fiamma odorosa dei legni.
Fuori, solo fuori, ovunque vai, non sopporto l’imperio delle sue insegne: ristorante toscano, trattoria toscana, cucina toscana, osteria toscana. Ma come, tu la più semplice delle cucine d’Italia, la più fedele al prodotto primo, siano i fagioli di Sorana e i piselli di Empoli, siano le costate larghe dei “vitelli di valle”, tu pronta al compromesso di ogni fuoco “straniero”? Alla malora. Nessuna cucina al pari di questa tutto punta sulle cotture immediate, spiedo e griglia, e tutto sui prodotti di una collina felice; esige di essere gustata in luogo, all’ombra magica dell’olivo delle Serre di Rapolano (ti stupisce il suo olio giallo dorato con riflessi verdognoli, sapido e deliziosamente fruttato, di corpo pieno ma non grasso, libero e spoglio di ogni acidità, vergine davvero di mille e una verginità) o in vista delle vigne, faticose e faticate, delle colline scarse e avare del Chianti.
In virtù delle sue eccellenti condizioni ambientali, geologiche e climatiche, la Toscana è tra le regioni italiane meglio disposte alla coltura della vigna.
Alcune decine di migliaia di anni fa la Toscana era coperta di grandi laghi e per una larga fascia costiera era sommersa dal mare.
Tutti i territori delle sue città più importanti, ad eccezione di quello di Siena, si trovavano allora sott’acqua, mentre le colline alle spalle di Livorno e di Lucca erano isolotti o strisce di terra affioranti in questo mare, tanto che alle loro falde si trovano ancora resti di pesci e di conchiglie, piccoli fossili e perfino ramificazioni di corallo. Grosse isole erano anche il promontorio di Piombino e il monte Argentario
Con il prosciugarsi dei laghi e la formazione dei bacini fluviali, la corsa a valle dei fiumi più grossi accumulò poi detriti e depositi alluvionali nelle zone più basse, formando le diverse pianure toscane, quelle in cui oggi sorgono Grosseto, Pisa, Firenze e Pistoia.
Con il ritirarsi del mare si depositarono anche lungo la costa larghe fasce di sabbia e argilla (per esempio quella corrispondente alla attuale Versilia) dove l’acqua ristagnava paludosa e infetta condizionando il paesaggio vegetale e l’evoluzione animale, oltrechè naturalmente gli insediamenti umani.
Altri acquitrini si formavano intanto anche nell’entroterra, nella Valdichiana e nel Valdarno inferiore tra Bientina e Fucecchio.
Nel lungo periodo delle glaciazioni (quaternario antico) piccoli depositi glaciali si formarono sotto le vette più alte dell’Appennino tosco-emiliano e contemporaneamente si verificarono importanti fenomeni vulcanici di cui restano tracce evidenti soprattutto nella parte meridionale della regione, tuttora dominata dal monte Amiata (1770 s.l.m.), grande vulcano ormai spento e punteggiato di formazioni laviche (Roccastrada, Campiglia Marittima, Capraia), di imponenti speroni di tufo (Sorano, Pitigliano) e di riserve di vapore compresso che erompono nei soffioni di Larderello e nelle sorgenti termiche della Val d’Orcia.
Nelle varie fasi preistoriche, dal paleolitico medio fino all’età del ferro, gli insediamenti umani hanno lasciato segni numerosi e diffusi (presso Arezzo, in Mugello, nelle Apuane, vicino a Talamone, a Cortona, a Montespertoli, a Pomarance) in grotte e anfratti rupestri.
A quell’epoca gli uomini vivevano raggruppati in forme tribali nei boschi presso laghi e corsi d’acqua, in pendii al riparo dai pericoli delle immense e malsane paludi.
Su queste genti si innestò, intorno al primo millennio avanti Cristo, la più definita e matura civiltà degli Etruschi
Invasori, guerrieri o mercanti industriosi, occidentali o venuti dal lontano oriente, gli Etruschi rappresentarono la prima radice omogenea della regione.
Stabilitisi prima tra l’Arno e il Tevere, si espansero in seguito su un territorio molto più vasto dell’attuale Toscana, comprendente anche l’Umbria e parte del Lazio, spingendosi a nord fino alla odierna Liguria.
Il primo contributo della Toscana alla civiltà europea è contraddistinto dalla straordinaria inventiva e dalla imprenditorialità del popolo etrusco.
Lo sfruttamento delle fertili vallate e delle miniere metallifere, unitamente allo sviluppo mercantile, caratterizzarono fortemente la civiltà di questo popolo ricco di immaginazione, di religiosità e di estro artistico. Agli Etruschi si devono la prima organizzazione politica, il primo sviluppo civile e il primo sistematico sfruttamento economico del territorio toscano.
Essi trasformarono i dispersi abitati preistorici in città la cui vita si è sviluppata nei secoli fino all’età contemporanea.
Città come Chiusi, Volterra, Cortona, Arezzo, Fiesole, Artimino, Comeana hanno una continuità di tre millenni che, a parte la Grecia, non può vantare nessun’altra regione d’Europa.
Gli Etruschi non formarono mai un vero e proprio stato unitario; il loro sistema si fondò (come peraltro quello dei Greci) sulla coesistenza di città autonome e talora persino in lotta tra loro.
Tuttavia era presente, in questo popolo, un forte sentimento di unità nazionale e religiosa; nel VII secolo a.C. l’egemonia etrusca si estese su gran parte dell’Italia centrosettentrionale (lambendo anche la pianura padana) giungendo anche a controllare la Corsica.
I caratteri di questa civiltà si stemperarono però rapidamente. Già nel V secolo cominciò la decadenza, dovuta alla incapacità di resistere alle forti pressioni provenienti sia dal mare (ad opera dei Greci e dei Cartagine), sia da terra (da parte dei Galli e dei Romani).
Ritiratisi progressivamente, gli Etruschi soggiacquero infine alla supremazia di Roma.
I Romani imposero il loro dominio in Toscana già agli albori del III secolo a.C., tra le ultime guerre sannitiche e la prima guerra punisca. Anche se a tratti ostacolata o rallentata da alleanze degli Etruschi con in Galli, la conquista fu peraltro favorita, non di rado, dalla amicizia di alcune città etrusche come Arezzo, Cortona e Perugia.
Non può dirsi, tuttavia, che la romanizzazione estinse completamente la grande civiltà preesistente sul suolo di Toscana, poichè non poco di essa trapassò nei nuovi conquistatori. Il ceto dominante etrusco fu gradualmente assorbito nella romanità, anche per la lingua: nell’ultimo secolo a.C. l’etrusco è quasi interamente soppiantato dal latino, a causa delle forti immigrazioni di coloni che innovarono profondamente le città vecchie o ne fondarono di nuove. Nel primo secolo della dominazione la regione continuò a prosperare favorita dal governo romano. Il territorio fu in gran parte ordinato secondo il sistema della federazione, che lasciava una certa autonomia formale alle città e che durò fino alla concessione della cittadinanza romana a tutte le genti italiche (91 a.C.).
Roma diede inoltre particolare impulso alle opere pubbliche e specialmente alle grandi vie di comunicazione che congiungevano l’Urbe all’Etruria e, di qui, alla Gallia cisalpina. Tra queste la via Aurelia (lungo il mare), la Clodia (che da Veio si allacciava all’Aurelia), la Cassia (da Roma a Fiesole) e la Flaminia (che per Arezzo attraversava l’Appennino scendendo nell’Emilia).
Ciò nonostante, nell’ultimo periodo dell’età repubblicana l’Etruria andò incontro ad un decadimento sempre più marcato. Fattori di tale decadimento furono sia le guerre civili dei Romani (che ebbero teatro proprio in Etruria), sia il flagello della malaria, molto diffusa sulla fascia costiera.
A ciò si aggiunse la crisi della coltura a grano (non più redditizia per le importazioni dall’Oriente e dall’Egitto) e dell’industria mineraria. All’inizio dell’età imperiale l’Etruria appariva dunque una regione in forte declino e soggetta ad un progressivo spopolamento.
L’imperatore Augusto cercò, con opportune leggi, di risollevare le sorti della regione costituendo nell’Etruria la “VII regione”, avente per confine settentrionale l’appennino tosco-emiliano e per confine meridionale il fiume Tevere. Alla fine del III secolo l’imperatore Diocleziano introdusse un nuovo ordinamento: l’Etruria (che già veniva chiamata “Tuscia”) venne unita amministrativamente all’Umbria.
A capo della regione fu posto un “Corrector”, che aveva sede a Florentia. In seguito, sul finire dell’impero, la parte nord dell’Etruria fu poi unita all’Emilia.
Le prime orde barbariche rappresentarono per la Toscana solo tempeste passeggere. Un’era nuova per la Toscana si aprì con la conquista longobarda, che conferì alla regione una importanza politica e militare come terra di confine verso i domini bizantini. Gli insediamenti longobardi nella Toscana furono relativamente intensi nella Lucchesia, nella Garfagnana, nella Lunigiana, nel Pistoiese, nel Pratese, nel Senese e nel Chiusino.
Il dominio longobardo portò anche una piccola rivoluzione stradale. La via Cassia, troppo esposta agli attacchi bizantini e resa difficile dall’impaludamento della Chiana, fu sostituita da un nuovo percorso (quello attuale) per Radicofani, Siena, la Valdelsa, Lucca. Ciò significò l’inarrestabile decadimento di Chiusi, una certa eclissi di Firenze e il progredire di Siena. La nuova via divenne, insieme con la Flaminia, la più importante dell’Italia centrale, percorsa da pellegrini (donde il nome di via Romea o Francigena) e anche da grandi personaggi. Il percorso fu punteggiato da ospizi e vigilato, nel tratto più difficile, dall’abazia di San Salvatore sul monte Amiata, allora il più grande centro monastico della Toscana.
Il dominio franco (774 – 888) non alterò sostanzialmente questa situazione. Ai signori longobardi si sostituirono o si aggiunsero signori franchi o anche di altre stirpi germaniche.
Frattanto la zona costiera cadeva sempre più in abbandono, anche per le incursioni dal mare dei saraceni e dei normanni. Solo Pisa resistette, tenendo i contatti con la Corsica e la Sardegna. La Toscana feudale non fu mai un aggregato politico unitario, specie dalla metà dell’XI secolo quando singole città (come Pisa, Siena, Firenze, Pistoia, Prato e Arezzo) cominciarono ad emergere e a rappresentare istanze proprie. Lucca declinò rispetto a Pisa, la quale ottenne successi navali contro i saraceni d’Africa e di Spagna.
In quel tempo la Toscana era percorsa da nuovi fermenti politici e religiosi (nacquero due nuovi ordini religiosi, quello dei camaldolesi e quello dei vallombrosani). La Toscana stava cambiando volto: le città cominciavano a battere vie proprie, ed anche ad ingaggiare guerre proprie (Pisa contro Lucca, Firenze contro Fiesole, Siena contro Arezzo). La feudalità cedeva progressivamente alla forza espansiva delle città. Nel XII secolo il processo di frantumazione della Toscana in tante città-stato era ormai compiuto, non ostacolato né dalla resistenza di qualche vescovo né dall’energica politica imperiale di Federico Barbarossa e di Enrico VI.
Fino ai primi decenni del XIII secolo Pisa fu all’avanguardia delle città toscane, mentre Lucca segnava il passo. Siena, peraltro, precedeva ancora Firenze nelle grandi speculazioni dei suoi banchieri che intrecciavano rapporti sia con la curia papale che con i signori di Francia e Inghilterra. Firenze, tuttavia, ascendeva lentamente ma inarrestabilmente verso un ruolo egemone, sviluppando le sue industrie e i suoi commerci (tra cui l’industria tessile).
Le tensioni si accrebbero e si complicarono, mentre Federico II tendeva ad utilizzare le città toscane come punto di forza per la sua politica contro il papato. Con la scomparsa di Federico II (1250) esplosero infine le forze popolari e si verificarono veri e propri rivolgimenti costituzionali, contraddistinti dalla presenza, nei governi cittadini, delle organizzazioni artigiane.
L’affermazione dei governi popolari, dopo un periodo di forti pressioni imperiali (ghibelline), finì per identificarsi con il guelfismo. Nel decennio 1250-1260 Firenze fu alla testa delle città guelfe. Un governo energico e ricco di iniziative favorì il primato fiorentino in campo finanziario ; inoltre, sviluppandosi l’industria tessile associata alla speculazione bancaria, si verificò a Firenze l’unico esempio di impresa capitalistica del medioevo.
Il primato economico di Firenze in Toscana (e la sua importanza anche a livello internazionale) è simboleggiata, in quegli anni, dalla coniazione del fiorino d’oro. Delle due antiche rivali, Siena entrò in una fase di lento declino mentre Pisa subì la disfatta sul mare della Meloria, stentando poi a ritrovare fortuna in una politica di terraferma.Prato si affacciò sui mercati europei con i pannilana prodotti dagli artigiani locali. Il primato di Firenze cominciò ad estendersi anche nel campo della cultura e dell’arte. grave l’età del “dolce stil novo”, l’età di Dante. Siamo alla fine del medioevo, siamo in presenza di una civiltà nuova, tipicamente laica e borghese. Qui ci sono i germi della nazione italiana la quale, in assenza di una unità politica, per secoli e secoli si riconoscerà nella propria lingua e nella propria civiltà letteraria. In tal senso il ruolo della Toscana, e di Firenze in particolare, risulta fondamentale. Per quanto sia ancora lontana dal dominare tutta la Toscana, d’ora in poi la storia di Firenze è ormai la storia dell’intera regione.
Nel 1406 Firenze assoggetta definitivamente Pisa, mentre Prato era passato sotto il suo dominio politico nel 1351. Poco dopo è la volta di Livorno (ancora un piccolo porto), mentre né la Lucca dei Guinigi né la Siena dei Petrucci possono più gareggiare con gli splendori dell’umanesimo fiorentino, con il fervore creativo dei suoi cenacoli letterari e filosofici.
Col rinascimento si afferma coscientemente la centralità dell’uomo e della natura (elementi già percepibili nel secolo precedente). Quanto più la società civile e l’economia si affrancano dalle catene della dottrina ecclesiastica e dal dominio feudale, tanto più l’uomo si rivolge con decisione e consapevolezza alla immediata realtà della percezione fisica e sensoriale. La Toscana diviene la più grande officina di idee e di invenzioni. I rigidi schemi del passato cedono il passo ad un linguaggio libero, limpido, ben articolato. Un arricchimento culturale così ampio e profondo non trova riscontro in nessun altra parte del mondo di allora.
Il secolo XV è contrassegnato dalla ascesa della famiglia dei Medici (originaria del Mugello), la quale acquista in Firenze un ruolo egemonico fino ad impadronirsi pienamente del potere politico. Abbattute le famiglie rivali (tra cui gli Albizzi) nel 1434 l’oligarchia si trasforma di fatto, anche se non ancora di diritto, in una vera e propria signoria. I Medici governano con splendore, dando incremento vastissimo al commercio, all’industria, alle arti e alle lettere, il che porta Firenze ad essere capitale ricca e vivace di un vasto territorio e centro culturale ineguagliabile.
Con i suoi 100.000 abitanti (Londra ne conta appena 40.000!), la città toscana è a quell’epoca uno dei più grandi centri del mondo, paragonabile all’odierna New York. Sul piano politico, civile e culturale, la trasformazione delle vecchie istituzioni in un potere nuovo e più chiaramente personale è compiutamente incarnata da Lorenzo de’Medici, detto “Il Magnifico”, nipote di Cosimo il Vecchio e che assume il potere nel 1469. La saggia politica di equilibrio che egli conduce nei rapporti con gli altri Stati garantisce un lungo periodo di pace e di prosperità, mentre la sua personale inclinazione alle cose d’arte e il suo mecenatismo fanno sì che Firenze raggiunga in quegli anni il massimo splendore. Il volto della città si trasforma. I nuovi ideali si concretizzano non solo nella edificazione di un grande apparato architettonico, monumentale e decorativo, ma nella collocazione di tutto ciò all’interno di un tessuto urbano ridisegnato secondo la nuova concezione di vita. Protagonisti di questo nuovo modo di pensare sono Filippo Brunelleschi (si può dire che con lui nasce l’architettura moderna), Donatello, Alberti, Ghiberti, Masaccio, Botticelli, Piero della Francesca e lo stesso Leonardo da Vinci.
Durante il gran conflitto europeo fra monarchia francese e monarchia austro-spagnola, nella prima metà del XVI secolo la Toscana potè serbare una sua formale indipendenza soprattutto grazie alla accorta politica di due papi medicei nepotisti (Leone X e Clemente VII) e di quella del loro nipote Cosimo I.
In un mondo diviso tra grandi e potenti Stati centralizzati la Toscana stenta a conservare un ruolo primario. Agli inizi del XVII secolo la “virtù” fiorentina si indebolisce in tutti i campi. La vita intellettuale ed artistica continua a fiorirvi, ma già da tempo i papi medicei tendono a spostare a Roma il centro della cultura attirandovi il genio fiorentino (è a Roma che nel 1564 muore Michelangelo, l’ultimo grande fiorentino con il quale si chiude il periodo splendido di Firenze).
Peraltro dei sette granduchi medicei sono pochi i principi di rilievo. Tra questi Ferdinando I (1587 – 1609), che continua in tutti i sensi la politica del grande Cosimo I e dà nuovo impulso all’opera storicamente più importante del Granducato: il porto di Livorno. Questo, grazie ad una politica di libera apertura alle navi e alle merci straniere, salì rapidamente al ruolo di importante emporio mediterraneo. Livorno divenne la seconda città del granducato, dopo Firenze, per numero di abitanti ed operosità delle imprese. Intanto Prato con la sua fiorente attività tessile aveva aumentato prestigio nel Granducato e sui mercati italiani ed europei, malgrado le leggi protettive medicee a favore delle manifatture tessili fiorentine il lanificio pratese seppe adattarsi alle nuove regole produttive e proseguì la sua ascesa fino a far diventare la città il più importante centro tessile della Toscana.
Firenze, come centro manifatturiero, manteneva una certa superiorità sulle altre città anche grazie ai privilegi concessi a favore delle corporazioni artigiane. Negli altri centri l’amministrazione rimase incentrata in una oligarchia che si restrinse sempre più in un piccolo patriziato cittadino, che via via si insignì di titoli nobiliari (conti, marchesi, baroni). Gli elementi più vivaci di questo patriziato si impegnarono occasionalmente in imprese contro i Turchi (che vide la Toscana alleata dell’Impero) o per la difesa della libertà di navigazione nel Tirreno (in accordo con l’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano con sede a Pisa). Alcuni principi medicei ebbero propensione per gli studi, promossero ricerche e raccolte di opere d’arte.
A Firenze si sviluppò un nuovo ambiente, quello delle Accademie, che riunivano studiosi attenti assiduamente impegnati nel fissare le norme dei generi artistici e letterari. Da allora le Accademie fiorirono nel mondo intero. Tra quelle sorte a Firenze, la più nota fu (ed è ancora) l’Accademia della Crusca, che nel 1612 pubblicò il primo vocabolario della lingua italiana.
Non si devono dimenticare le tre Università toscane. Tra queste, nel seicento, la più viva fu certo Pisa, favorita anche dalla generosità del granduca Ferdinando II (1621 – 1670) che protesse il grande pisano Galileo Galilei
Per tutto il seicento la dinastia medicea va indebolendosi fin quando, agli inizi del ‘700, il granducato di Toscana diventa un problema europeo.
Infatti nessuno dei due figli di Cosimo III (1670 – 1722) aveva eredi. Quando nel 1737 morì Gian Gastone, l’ultimo dei Medici, furono le grandi potenze a decidere: la Toscana sarebbe stata data a Francesco Stefano, ex duca di Lorena e consorte di Maria Teresa d’Asburgo, l’unica figlia dell’imperatore Carlo VI. Questi, tuttavia, si limitò ad una visita solenne a Firenze nel 1739 (di cui rimane memoria nell’arco di trionfo della Porta San Gallo), affidando poi la cura del granducato ad un Consiglio di reggenza e ad un esercito composto di lorenesi e lombardi.
Il granducato perde così ogni autonomia e diviene un satellite dell’impero. Ma nella seconda metà del settecento il risveglio spontaneo di forze indigene, non ostacolato dai governatori reggenti, fa sì che la Toscana cominci a risollevarsi dal torpore in cui era caduta sotto gli ultimi granduchi medicei. Nel 1753 nomi illustri del patriziato e della borghesia intellettuale danno vita alla Accademia dei Georgofili, mediante la quale si esprimono gli interessi di una Toscana non più manifatturiera e mercantile ma essenzialmente agraria.
Con Pietro Leopoldo (1765 -1790) il granducato di Toscana, secondo-genitura della casa degli Asburgo-Lorena, acquista una vera autonomia. In una Toscana in cui l’agricoltura è divenuta l’attività principale, mentre l’industria e il commercio perdono di importanza ad eccezione del territorio pratese ormai vocato all’attività tessile ed alla commercializzazione dei suo prodotti, il granduca introduce una serie di riforme. Nel 1770 viene istituita, tra l’altro, una Camera di Commercio delle Arti e delle Manifatture, la prima in Italia.
Ferdinando III, successore di Pietro Leopoldo (che nel 1790 è divenuto imperatore), non riuscì ad impedire l’occupazione dell’intera Toscana da parte delle truppe francesi di Napoleone.
Questa occupazione durò dal 1799 al 1814. Dapprima (nel 1801) Firenze fu capitale del regno d’Etruria (che Napoleone cedette ai borboni di Parma), in seguito (nel 1807) la Toscana, unita al grande impero francese, fu divisa in tre dipartimenti, i quali furono poi di nuovo riuniti in un unico granducato (affidato da Napoleone alla sorella Elisa Baciocchi).
La restaurazione del 1814 fu gestita da Ferdinando III, che finì con l’annientare ogni libertà comunale nominando egli stesso i gonfalonieri delle città. Ma l’occupazione francese aveva introdotto nelle nuove classi colte del paese il fermento della libertà e dell’indipendenza nazionale, cui i granduchi erano contrari (essendo legati alla politica austriaca).
L’opinione pubblica, quindi, comincia progressivamente a distaccarsi da essi. Nel 1819 Giampiero Vieusseux fonda a Firenze l’omonimo gabinetto di lettura e di discussione, che diventa ben presto il centro delle nuove idee basate sul desiderio di indipendenza nel quadro di una Italia unitaria. Firenze, per la forza di queste idee ed anche per la sua eccezionale tradizione, torna ad essere il centro intellettuale d’Italia ed uno dei più importanti d’Europa.
A Firenze soggiornano tutti gli ingegni della Giovane Italia (tra i quali Foscolo, Manzoni, Leopardi, Tommaseo), ma anche illustri stranieri come Chateaubriand, Shelley, Byron, von Platen. Dal 1824 il nuovo granduca Leopoldo II si sforza di fare della Toscana uno Stato moderno bonificando la Maremma, stimolando i commerci di Prato e di Livorno ,sovvenzionando la costruzione di linee ferroviarie e, addirittura, facendo costruire tra Firenze e Pisa (nel 1846) la prima linea telegrafica d’Italia. Ma tra Leopoldo e il suo popolo si è aperto un solco non più colmabile. Durante la sollevazione del 1848 il granduca fugge a Roma e poi a Gaeta.
L’anno dopo torna a Firenze con l’appoggio delle truppe austriache, ma dovrà rassegnarsi ad un esilio definitivo quando, nel 1859, scoppia la guerra tra il re di Sardegna (sostenuto dalla Francia) e l’Austria.
A Firenze si costituisce un governo provvisorio e, nel 1860, viene organizzato da Bettino Ricasoli un plebiscito che sancisce l’annessione dell’intero paese al regno di Sardegna-Piemonte. Così il 16 aprile 1860 Vittorio Emanuele II fa il suo ingresso i Firenze, che abbandona coscientemente la propria tradizione di libertà per confluire nella grande patria comune. La città si afferma immediatamente come uno dei centri essenziali dell’Italia unita. Nel 1861 viene allestita a Firenze la prima esposizione italiana dell’industria e dell’artigianato. Nasce il quotidiano “La Nazione”, dal titolo significativo. Qualche anno più tardi (nel 1865) Firenze diviene la prima capitale del regno d’Italia. Pochi anni dopo, tuttavia, la capitale e il governo si trasferiscono a Roma, e Firenze ridiviene un centro regionale dove hanno sede l’arcivescovo, una Corte d’Appello, un comando di corpo d’armata, un Provveditore agli studi.
Dato che la Toscana è un paese essenzialmente agricolo, Firenze è soprattutto un grande mercato di vino, di olio, di granaglie e di bestiame. Si sviluppano, però, anche alcune industrie importanti come la fonderia del Pignone (che utilizza il ferro dell’isola d’Elba) e la fabbrica di ottica e strumenti di precisione che prende il nome di Galileo. Frattanto Firenze si trasforma, realizzando le sistemazioni previste dall’architetto Giuseppe Poggi, tra cui la cerchia dei viali di circonvallazione.
La qualità della Università attira eminenti studiosi, grazie alla presenza dei quali Firenze continua ad essere il vero centro intellettuale d’Italia. Insieme a Milano, Firenze è anche uno dei due centri dell’editoria italiana. L’artigianato fiorentino conserva una qualità inimitabile e si esprime in prodotti come i ricami, le pelli lavorate, le ceramiche, le sculture, i mosaici, i legni scolpiti, i metalli lavorati, i vetri artistici e la celeberrima paglia intrecciata. A Prato, dalla metà del secolo, l’attività tessile assume la dimensione d’industria moderna per effetto della rivoluzione industriale che porta sostanziali innovazioni sui macchinari e sulle tecnologie.
Nel primo decennio del secolo XX la vita intellettuale in Toscana, che era stata florida nel granducato lorenese e che aveva poi ceduto un poco a Roma, Milano e Napoli, si riprese grazie a movimenti non soltanto letterari ma anche apertamente politici, promossi da riviste fiorentine di livello nazionale come “La Voce” di Prezzolini e Papini o “Il Regno” di Corradini.
L’allargamento del diritto di voto, fino al suffragio universale, irrobustì le posizioni di sinistra in molti comuni medi e rurali, mentre le forze cattoliche si accordavano con quelle liberali contro il pericolo socialista che appariva particolarmente grave a causa della crescente industrializzazione del paese (i cantieri Orlando a Livorno, i lanifici di Prato, le cartiere della Lima, l’industria di Larderello etc..).
Tuttavia i conflitti di classe, il sorgere delle prime amministrazioni comunali socialiste, l’ascesa di nuove forze politiche e il declino di altre non costituirono un ostacolo al progresso generale della regione che, come tutta l’Italia, beneficiò del periodo d’oro dei primi lustri del secolo.
La prima guerra mondiale (1914 – 1918), che sorprese la Toscana in una fase di notevole sviluppo industriale, ebbe una serie di ripercussioni economiche e politiche che dettero origine a un periodo di violente agitazioni, comuni alla maggior parte d’Italia.
Dopo il 1922 anche la Toscana si adattò alla dittatura fascista. I coraggiosi tentativi di opposizione (tra cui quello della rivista “Non mollare”) si esaurirono rapidamente sotto la violenza delle persecuzioni che culminarono nel 1925 a Firenze con una serie di uccisioni. Nella seconda guerra mondiale (1940 – 1945) anche le città toscane furono esposte quasi tutte ai bombardamenti, con danni notevoli specialmente a Livorno, Pisa e Firenze. Le disgraziate vicende militari, e la sensazione del crollo imminente del fascismo, accelerarono la ricostituzione clandestina dei vari partiti e l’inizio di una lotta decisa che, dopo l’8 settembre 1943, divenne lotta contro i tedeschi. Le popolazioni toscane, sia cittadine che rurali, diedero un grande contributo di coraggio e di sangue alla resistenza, e anche in Toscana non mancarono episodi di feroce rappresaglia contro i partigiani.
Ristabilita la pace, nel referendum del 1946 la Toscana si pronunciò a larga maggioranza a favore della istituzione della repubblica. Da allora la regione ha dato un contributo notevole di uomini che hanno spesso ricoperto posizioni di primo piano nella vita politica nazionale. Sul piano economico, i successi della piccola e media industria e dell’artigianato hanno consolidato il prestigio della Toscana a livello internazionale. Ma una delle più fiorenti attività della Toscana contemporanea è il turismo, i cui punti di forza sono costituiti, oltre che dalla bellezza e varietà dell’ambiente, dalla grandezza che le hanno dato gli alti ingegni dei secoli passati. Ai ricchi viaggiatori del settecento e ai letterati, artisti ed esteti dell’ottocento si succedono, oggi, folle di turisti che vengono a contemplare alcune delle opere più meravigliose dell’uomo.
La Toscana di oggi ha conservato, modificandolo, il suo carattere universale il quale non dipende più tanto dalla espansione dei suoi mercati e dei suoi prodotti quanto dalla qualità umana dei capolavori che custodisce e dalla varia origine delle folle che la visitano.