Castagneto Carducci, piccolo borgo una volta circondato dalle mura, si trova sulla sommità di una collina, dominato dal Castello dei Conti Della Gherardesca. Il centro urbano è sviluppato secondo uno schema di anelli concentrici che sfociano in un insieme di strade, vicoli e piazzette che riportano nel passato, di cui possiamo ancora trovare antiche testimonianze. Castagneto, che comprende anche i comuni di Bolgheri, Donoratico e Marina di Donoratico, riunisce nel suo territorio una notevole varietà di ambienti naturali: la spiaggia, le pinete della costa, le zone che ricordano l'antica Maremma, la campagna punteggiata di ville, i poderi e le case coloniche, le colline dalle forme e dai colori tipicamente toscani, i vicoli antichi del paese.

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Un isolotto, o più esattamente un affioramento roccioso circondato da scogli a fior d'acqua nell'Alto Tirreno, lungo nove chilometri e largo due, di fronte a Livorno da cui dista per un breve tratto di mare: questa è la Meloria, celeberrima per la battaglia del 6 agosto 1284 che segnò la grande sconfitta della flotta pisana perpetrata da quella genovese. Ma la Meloria è anche un luogo, dall'antichità ad oggi, straordinario per il paesaggio e la natura, per i particolari morfologici che la contraddistinguono. In questo libro, un famoso esploratore dei mari esotici e del Mediterraneo in particolare, come Folco Quilici, una storica allieva di Marco Tangheroni, come Olimpia Vaccari, e un naturalista livornese, come Gianfranco Barsotti, che della Meloria e della natura al di sotto del suo mare conosce tutto, ci restituiscono di questo luogo che appartiene all'immaginario collettivo della civiltà del Mediterraneo gli aspetti più importanti. Il libro ha inoltre nelle fotografie di Fabio Taccola, per la parte emersa, e di Guglielmo Cicerchia e Federico Fiorillo, per la parte sommersa, immagini straordinarie e altamente suggestive.

 

Maledetta meloria

di Renzo Castelli

Brucia ancora la sconfitta con Genova, sette secoli dopo. Forse è tempo di farsene una ragione... Non sono il tifo sportivo, né le tradizioni spesso un po’ posticce sospinte dal turismo, a disegnare la vera anima di una città. Nel caso di Pisa, la sua “pisanità”. In poche città, come in questa, la storia, e quindi il passato remoto, hanno lasciato un segno così marcato e condizionante. Pisa ha troppa memoria - l’origine etrusca, la grandezza della sua marineria - per dimenticare. Ecco perché ancora oggi la Meloria non è soltanto il nome di una battaglia finita in disfatta, una delle molte che l’uomo ha combattuto in terra e sul mare, ma rappresenta la morte di una città-Stato, l’umiliazione dei suoi cittadini. Con la Meloria (1284) Pisa ha perduto l’orgoglio, i sogni, la regalità, e mai più potrà dimenticare il perduto potere. La città-stato ha chinato la testa, forse per sempre, e non dimenticherà mai più. Pisa, che era stata (Rudolf Borchardt) “un impero di vele”, resta nei secoli dei secoli una città sconfitta, umiliata, delusa. Pisa, ovvero l’orgoglio ferito. Non fu solo la Meloria a scavare il grande solco che proietta la sua ombra fino a noi. Ai 12 mila morti della battaglia che cancellarono l’anima della grande città-stato, si aggiunsero i 6mila prigionieri portati in catene nel carcere genovese del Modulo che provocarono una crisi demografica che parve irreparabile. “Questa situazione - precisa lo storico Emilio Tolaini - determinò un forte incremento immigrativo dal contado che consentì di ricostruire in qualche modo la rete dei traffici”. Ma il ritorno ad una seminormalità non fu vera gloria: appena un secolo dopo, infatti, i fiorentini compreranno Pisa e il suo porto. 

Se è vero che ogni città ha un’anima propria che è la risultante delle anime di coloro che vi hanno sempre vissuto, molti concordano nel dire che Pisa conserva ancora una scontrosità che è figlia della sconfitta più bruciante. Scontrosa, dunque, e superba: così la giudicò Borchardt nel secolo scorso, e il giudizio resta attuale. Per questi motivi, nell’effervescente e inventiva Toscana, nella blasfema Toscana, Pisa si colloca con caratteri diversi da ogni altro campanile. La “pisanità”, ancora oggi, significa diffidenza perché diffidenza è figlia dell’orgoglio ferito. Non a caso Curzio Malaparte, nel disegnare i suoi Maledetti Toscani, glissò del tutto su Pisa. Confesserà: “Non li capisco, questi pisani. Hanno un carattere sfuggente, insincero. Sembra quasi che debbano farsi perdonare qualcosa. Ma cosa?”. La risposta sarebbe stata la stessa di oggi: farsi perdonare di avere perduto. Eppure Malaparte adorava Pisa, i suoi silenzi notturni ma anche il vociare degli studenti, la straordinaria bellezza dei marmi e l’Arno che fluiva al mare. Anche se di quel fiume preferiva le burrasche e il ghiaccio dell’inverno perché la “torba” voleva dire l’ingresso in Arno delle cèe. E per un piatto di cèe consumato in piazza Garibaldi, nell’osteria di Nilo Montanari, Malaparte avrebbe dato l’anima. (Non sapete cosa sono le cèe? Non possiamo spiegarvelo: venite a Pisa e capirete). E con l’oste amico, Malaparte si confidava: “Siete una razza strana, ma cucinate bene”. 

Dante provvide a suo tempo e con una certa efficacia a denunciare l’orribile colpa dei pisani. Dopo la Meloria, il conte Ugolino della Gherardesca, ritenuto responsabile per imperizia o per tradimento di quella sconfitta, fu rinchiuso, fino a morire di fame, con i figli ed i nipoti nella storica torre di piazza delle Sette Vie (oggi, Cavalieri di Santo Stefano). L’invettiva dantesca è forte, ma se il sommo poeta avesse conosciuto il seguito avrebbe scritto cose anche peggiori. Le ossa del conte Ugolino, infatti, furono poi sotterrate in faccia al fiume sui lungarni di Tramontana e quel terreno restò per sempre maledetto. Chi oggi visiti Pisa e percorra i suoi lungarni, scoprirà che la lunga teoria dei palazzi è interrotta, poco prima della chiesa del Santo Sepolcro, da un giardino, l’unico che si affacci sul lungarno. Ma non è un giardino, e non è un cimitero: è terra maledetta. Perché i pisani non dimenticano. Neppure oggi che le ossa del conte hanno trovato pace - si spera - nel convento di San Francesco, su quel terreno non sarà mai consentito di costruire niente. 

No, Pisa non può essere considerata una città “normale”, come bene intese Malaparte. Dice il professor Silvano Burgalassi, sociologo e massimo cultore dell’anima pisana: “Pisa vive del passato e non riesce ad esprimere i valori di arte, di spiritualità, d’intelligenza dei quali pure è portatrice. È una sorta di freno, quasi di maledizione della quale non sappiamo liberarci. Oggi non potremmo più fare la piazza del Duomo o i lungarni perché mancherebbe la capacità d’ispirazione che ebbero i pisani prima della Meloria, quando dominavano i mari e vedevano in questa loro missione qualcosa di divino che dovesse essere degnamente celebrato. Da allora, l’anima pisana è malata di orgoglio ferito e non è capace di esprimere una profondità di pensiero che sia in sintonia con i propri tempi”. 

Eppure Pisa oggi avrebbe tanto di cui vantarsi. Ha tutti i requisiti per essere una città felice: un clima mite, il mare a dieci chilometri, la collina a sette, la montagna per lo sci a meno di un’ora; ha una posizione baricentrica, un aeroporto internazionale, un porto (il “porto di Pisa”, che alcuni chiamano Livorno) a 20 chilometri; ha tre università prestigiose e uno dei più grandi nuclei nazionali del Cnr, infine ha musei e monumenti che tutto il mondo ci invidia. Ma non è una città felice. 

Quanto dovrà passare perché Pisa ritrovi la sua serenità, dimentichi la sua sconfitta e il suo impero perduto, perché la “pisanità” diventi finalmente un sentimento positivo? Nessuno può dirlo. Ma non sarà certo il folklore a guarire l’orgoglio ferito. I pisani contemporanei hanno in uggia quel falso folklore che simula, una volta all’anno, i fasti di una repubblica marinara che non c’è più. Anzi, considerano quella regata un po’ blasfema, un confronto di muscolosi atleti che non ha il diritto di evocare il fasto di un’epoca. 

Eppure la “pisanità” malata, questo umore scontroso, questo malessere del presente, sfugge spesso ai visitatori. Se Malaparte fu diffidente di Pisa e dei pisani, altri visitatori trovarono invece una grande serenità nei silenzi della città, nel suo pathos. 

Scriveva Elizabeth Barrett: “Pisa, ecco una delle piccole, deliziose città del silenzio. Strade sonnacchiose dove cresce l’erba fra pietra e pietra, dove ruzzano nella solitudine gruppetti di ragazzi”. Vista dagli altri, Pisa può veramente apparire così, tenera e silenziosa più che altera e scontrosa. E allora, per animi tormentati, Pisa può essere l’ideale: se il suo orgoglio ferito non traspare, resta intatta quella profumata aurea da oasi che si respira nelle strade e nelle piazze, tanto che Shelley poté trovare l’ispirazione per comporvi l’elegia In morte di Keats e Leopardi scrivere in una notte di aprile, profumata di glicine, la poesia A Silvia.

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Le prime testimonianze storiche di Castellina iniziano con un nucleo abitativo Etrusco posto sul colle di Salivolpi dove attualmente sono visibili un pozzo artesiano e i resti del muro di cinta dell'insediamento. Il vicino tumulo di Monte Calvario con quattro tombe a camera disposte a croce secondo i punti cardinali, avallano l'ipotesi dell'importanza del sito nei secoli VII e VI A.C. .

Di entità rilevante anche la necropoli del Poggino in località Fonterutoli riportata alla luce da pochi anni dal locale Gruppo Archeologico. Il borgo di Castellina, nella attuale locazione, ha probabili origini romane, ma si perdono le tracce nel corso dei secoli fino all'importanza strategico - militare che ebbe nell'Alto Medioevo. La storia parla della Castellina dei Trebbiesi dell'XI secolo, nome dato dai nobili del Trebbio della consorteria dei Conti Guidi, proprietari di un castello nelle vicinanze i cui labili resti sono visibili da Badiola. Nel XII secolo diventa un importante presidio militare fiorentino, posto a confine fra gli stati di Firenze e di Siena. Centro principale dell' antica Lega del Chianti con Radda e Gaiole nel XIII secolo, successivamente, nei secoli XIV e XV Castellina è teatro di incursioni e saccheggi da parte dello stato senese. Tali eventi obbligarono i Fiorentini a porre in opera continue ristrutturazioni e rafforzamenti della cinta muraria affidandone la direzione dei lavori a famosi architetti tra i quali Filippo Brunelleschi. 

Nel 1478, mentre Firenze è in guerra a causa della congiura dei Pazzi, a Castellina viene inviato Giuliano da Sangallo a rafforzare nuovamente le strutture di difesa: di questo episodio vi è una cronaca esauriente nelle "Vite" del Vasari. Baldassar Castiglione nel suo "Cortegiano" descrive invece un assedio di quaranta giorni da parte del Duca di Calabria, avversario mediceo, dove vennero usate le artiglieriedell'epoca come bombarde , catapulte e proiettili "medicati" capaci di causare epidemie e pestilenze. Dopo la fine della guerra fiorentina Castellina torna ai Medici nel 1483. Nel XVI secolo il paese perde la sua importanza strategica . La guerra fra Siena e Firenze è terminata e l'unificazione della Toscana in Granducato di Cosimo I dei Medici trasforma il vecchio avamposto militare in centro rurale strutturato secondo i canoni del podere a mezzadria. Nel 1865 nasce il comune di Castellina e la sua sede viene trasferita nel 1927 nella restaurata rocca Medievale di piazza del Comune. La seconda guerra mondiale vede il paese teatro del passaggio del fronte. I bombardamenti distruggono l'antica porta Fiorentina all'estremo nord di via Ferruccio e l'attigua Chiesa Parrocchiale viene seriamente danneggiata, facciata e campanile vengono ricostruiti e modificati nella forma attuale alla fine del conflitto

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Il Santuario di Montenero 

 

Montenero, collocato su una collina che domina il mare e il porto di Livorno, è tra i luoghi della Toscana di maggior fama dovuta particolarmente al suo celebre Santuario dedicato alla Madonna delle Grazie. Si racconta che un pastore storpio, intorno al 1345, trovò una immagine miracolosa che gli chiese di essere trasportata sul colle di Montenero. Udita la voce il pastore fece come gli era stato chiesto e arrivato in cima al colle si trovò guarito. Da allora quell'immagine della Madonna non ha mai smesso di essere fonte di devozione e di grazia per tutti coloro che vi si rivolgono e il Santuario che vi è nato costituisce meta di pellegrinaggi e di visite da parte di un grande numero di persone.

 

Origini 

Le origini del Santuario risalgono al 15 maggio 1345, festa di Pentecoste, quando, secondo la tradizione, un povero pastore storpio trovò l'immagine miracolosa della Vergine Maria e seguendo un'intuizione interiore la portò sul colle di Montenero, luogo già conosciuto come rifugio di briganti e per questo considerato oscuro, tenebroso... il "monte del diavolo". 

Al di là delle molte leggende che circondano la storia del ritrovamento dell'immagine della Madonna, che la critica attribuisce invece ad un certo Iacopo di Michele detto Gera, sembra che tale immagine sia comparsa a Montenero in seguito a una rinascita di fervore religioso, intorno al 1341. Proprio in questo anno gli abitanti di Livorno, allora poco più di un villaggio di pescatori, avrebbero organizzato un culto autonomo di immagini sacre, dipinte di recente, osteggiato però dalle autorità ecclesiastiche che intimarono la cessazione del culto e la sparizione delle relative immagini. Non è da escludere che davanti a questa ostilità, l'immagine sia stata occultata e poi ritrovata vicino al greto del fiume ''Ardenzo'', da quel pastore che solerte la portò in cima al monte per affidarla quasi sicuramente alla custodia di qualche eremita. 

La storia 

La fama dell'immagine miracolosa si diffuse presto, a motivo delle tante grazie operate dalla Beata Vergine; cominciano i pellegrinaggi e con essi crescono le offerte per il piccolo oratorio che ospita la Madonna. Già nel 1380 furono iniziati i lavori per ampliare la Cappella e i locali che servivano al riparo dei pellegrini. Ai primi custodi del santuario, quasi sicuramente i frati terziari, seguirono le custodie dei Gesuati (dal 1442 al 1668) e dei Teatini (dal 1668 al 1792 ) indicati allora come i più qualificati ad espletare il servizio presso il Santuario. Infatti nel 1720, i Teatini iniziarono i lavori di ampliamento del Santuario che terminarono nel 1774. In questo lasso di tempo la Madonna di Montenero operò alcuni miracoli a favore di tutta la città tra i quali quello del 1742 quandò la città fu sconvolta da un violento terremoto e ancora una volta soccorsa dalla sua protettrice e dalla sua immagine che fu trasportata in città e posta davanti alla Collegiata. A Livorno quel miracolo non fu mai dimenticato tanto che ogni anno si rinnova il voto che i livornesi fecero alla Madonna "...di digiunare in perpetuo il 27 gennaio, di non fa balli, né maschere, di assistere nella Collegiata stessa all'annua funzione di ringraziamento...''. Nel 1792 il Santuario fu affidato ai Monaci benedettini Vallombrosani che ne sono attualmente i custodi. 

 

Montenero è tra i luoghi della Toscana di maggior fama dovuta particolarmente alla presenza del Santuario. Posto su un colle a 300 s.l.m., Montenero gode di un ampio orizzonte marino e terrestre di particolare bellezza. Panorami incantevoli si aprono sotto gli occhi degli osservatori. Di qui lo sguardo corre allo scoglio della Meloria, memorabile per il tradimento del Conte Ugolino (1284) e per la celebre battaglia tra Genova e Pisa, ma anche alla pianura di Livorno con il suo Porto e a quella di Pisa. A sud si può vedere l'isola d'Elba, la Corsica e la Sardegna: meravigliosi i suoi tramonti. Il nome "Montenero" è dovuto ad una vecchia fama che diceva questa località monte tenebroso, forse perchè ricoperto da irte giogaie e infestato dai briganti che, con tutta probabilità, aspettavano qui l'arrivo dei bastimenti a cui dare l'assalto. Montenero è unito a livorno con un autobus e con una funicolare che sale fino alla piazza antistante il Santuario. La piazza superiore fu creata dai monaci nel secolo scorso quasi atrio scoperto del Santuario stesso. Da una parte vi si affaccia la facciata della chiesa, dall'altra il Famedio civico: cappelle che racchiudono i resti mortali di grandi livornesi quali il Guerrazzi, Marradi, Meyer, Castelli, Fattori ed una lapide in ricordo di Pietro Mascagni ed Amedeo Modigliani. 

L' 8 settembre ricorre la festa popolare più sentita nella quale il pellegrinaggio dei livornesi è ininterrotto e il Santuario è illuminato fino a notte inoltrata dopo la processione mariana notturna dalla Cappella dell'Apparizione al Santuario stesso. 

La Cappella dell'Apparizione 

Situata poco prima di Piazza delle Carrozze, è il luogo dove la tradizione fa risalire il ritrovamento dell'Immagine della Madonna di Montenero da parte di un pastore. Costruita nel 1956, più ampia e più bella della preesistente e in luogo stesso dove si trovava la ''Cappellina" semidistrutta nel corso dell'ultima guerra (1943). 

 

Chiesa 

La Chiesa si presenta in stile barocco, assai suggestivo e invitante al raccoglimento e alla preghiera. Sull'Altare Maggiore troneggia l'Immagine Sacra di Maria in un tabernacolo marmoreo contornato da una raggiera dorata. L'immagine della Vergine, attribuita alla scuola pisana ed in particolare a Iacopo di Michele detto Gera, è dipinta su tela sovrapposta a tavola. La Vergine con la veste rossa ed il manto blu, è seduta su un guanciale e intorno al capo si legge la scritta "Ave Maria Mater Christi". Il volto è inclinato verso il bambino che le siede in grembo aggrappato con le manine alla veste materna, mentre tiene un filo che lega delicatamente l'uccellino sul braccio di Maria, quasi ad indicare che la fede è come un filo che trae la salvezza da Cristo cui ci tiene uniti la devozione della Madonna. 

Altre importanti opere d'arte della Chiesa sono la Cupola e le Tele degli altari laterali. Nella Cupola, restaurata nel 1992, è rappresentato il Paradiso in festa per la più alta glorificazione di Maria, incoronata Regina degli uomini e degli angeli. Il dipinto, eseguito nel 1773, è opera del celebre maestro Traballesi. Nel meraviglioso scenario appaiono santi e angeli con personaggi dell'Antico Testamento: da Adamo ed Eva, a David, Daniele, Aronne, Mosè, Sansone etc. fino a San Giuseppe, San Giovanni Battista, S. Anna, S. Cecilia e altri martiri. Le Tele invece più importanti sono quella di San Giovanni Gualberto, fondatore dell'Ordine Vallombrosano, nel secondo altare a destra. La Tela di autore ignoto raffigura il Santo in atteggiamento di preghiera sullo sfondo delle alture di Vallombrosa, con ai piedi l'Abbazia da lui fondata. Un altra Tela, posta nel terzo altare a destra, raffigura l'Assunzione di Maria ed è opera del teatino Filippo Galletti. In basso alla tela, al centro, vi è una nicchia nella quale è custodito, ben conservato un Crocifisso che si ipotizza essere stato in origine in una grotta della località Romito, incolto dirupo sul Mare Tirreno nei pressi di Livorno. Ai lati della Vergine sono rappresentati l'Apostolo S. Pietro e il teatino S. Andrea Avellino. Sempre del Galletti è il dipinto della Madonna che apparve a San Gaetano Thiene, e gli presenta il Bambino Gesù. Fu solennemente inaugurata nel 1696 nella festa del Nome di Maria.

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Arezzo

Importante centro turistico famoso per la "Giostra del Saracino" (torneo cavalleresco che si tiene la prima domenica di settembre di ogni anno) e per un'importante fiera antiquaria (prima domenica di ogni mese). La cattedrale gotica , la monumentale Piazza Grande: con il maestoso Palazzo delle logge di Giorgio Vasari , la stessa casa Vasari stupendamente affrescata , la casa natale di Francesco Petrarca , il Palazzo dei Priori , la chiesa di S. Maria delle grazie e quella di San Domenico (sec XIII - XIV) , che conserva sull'altare maggiore un pregevole Crocifisso di Cimabue sono solo alcune delle opere che danno lustro a questa cittadina insieme alla celeberrima chiesa di S.Francesco nella quale troviamo un imponente e prestigioso ciclo di affreschi della "Leggenda della vera croce" di Piero della Francesca: una delle massime realizzazioni di tutto il 400 e alla suggestiva Pieve S. Maria , uno dei più significativi edifici romanici della regione. Tra i vari musei citiamo quello "Medioevale e moderno" ed il Museo Archeologico con reperti preistorici , romani e soprattutto etruschi che si trova presso i resti dell'anfiteatro romano. Arezzo, a m. 296 su un blando declivio di margine settentrionale della Val di Chiana là dove questa s’innesta col Casentino , il Valdarno, con gli ampi solchi dell’Arno, uno a oriente, , l'altro ad occidente, della dorsale appenninica del Pratomagno (1592 m). La popolazione della città è di 108.000 ab.. L'abitato cittadino si espande, avvolgendo un pendio collinare su cui sorge, con una pianta pressoché semicircolare, il cui centro è occupato dal Duomo, che sorge in posizione dominante, a 286 metri. Dalla piazza del Duomo si dipartono a raggiera le tre principali vie della città che si dirigono lo alla Val di Chiana, al Valdarno di Sopra , al Casentino. Via Garibaldi taglia, le tre principali principali arterie, seguendo l’asse del semicerchio. All'esterno di essa, verso la linea ferroviaria, sorgono quartieri meno antichi, con strade ,rettilinee, ampie, alberate, che fanno capo alla grande piazza, nel cui centro sorge il monumento a Guido Monaco eretto nel 1981 in occasione del centenario del grande aretino. Un aspetto caratteristico, conservano le vie del centro storico medioevale e le vie lastricate a fiancheggiate da edifici cinquecenteschi. Notevole il Duomo, la cui facciata è ristrutturazione moderna, in armonia , con l'architettura interna , a tre navate, di stile romano-gotico; bello e esagonale, anch'esso moderno e ricche le opere di pittura e di scrittura. Notevole Santa Maria della Pieve con i suoi portali, opera del XIII secolo, con un'elevata torre campacaria. Pregevoli le Chiese di S. Francesco (Sec. XIII restaurata tra il 1900 e il 1920) con gli affreschi di Piero della Francesca e di S.Domenico ( XIII; poi restaurata), costruita sul disegno di Nicola Pisano dell'Annunziata (1491-1517) di Antonio Sangallo , e di Santa Maria delle Grazie i ( XV) attribuita a Benedetto da Maiano con l'elegante portico, che, ricorda quello dei Servi , a Bologna, nonchè la Loggia del Vasari. Arezzo è città della Toscana capoluogo di provincia, a m. 296 su un blando declivio di margine settentrionale della Val di Chiana là dove questa s’innesta col Casentino , il Valdarno, con gli ampi solchi dell’Arno, uno a oriente, , l'altro ad occidente, della dorsale appenninica del Pratomagno (1592 m). La popolazione della città è di 108.000 ab.. L'abitato cittadino si espande, avvolgendo un pendio collinare su cui sorge, con una pianta pressoché semicircolare, il cui centro è occupato dal Duomo, che sorge in posizione dominante, a 286 metri. Dalla piazza del Duomo si dipartono a raggiera le tre principali vie della città che si dirigono lo alla Val di Chiana, al Valdarno di Sopra , al Casentino. Via Garibaldi taglia, le tre principali principali arterie, seguendo l’asse del semicerchio. All'esterno di essa, verso la linea ferroviaria, sorgono quartieri meno antichi, con strade ,rettilinee, ampie, alberate, che fanno capo alla grande piazza, nel cui centro sorge il monumento a Guido Monaco eretto nel 1981 in occasione del centenario del grande aretino. Un aspetto caratteristico, conservano le vie del centro storico medioevale e le vie lastricate a fiancheggiate da edifici cinquecenteschi. Notevole il Duomo, la cui facciata è ristrutturazione moderna, in armonia , con l'architettura interna , a tre navate, di stile romano-gotico; bello e esagonale, anch'esso moderno e ricche le opere di pittura e di scrittura. Notevole Santa Maria della Pieve con i suoi portali, opera del XIII secolo, con un'elevata torre campacaria. Pregevoli le Chiese di S. Francesco (Sec. XIII restaurata tra il 1900 e il 1920) con gli affreschi di Piero della Francesca e di S.Domenico ( XIII; poi restaurata), costruita sul disegno di Nicola Pisano dell'Annunziata (1491-1517) di Antonio Sangallo , e di Santa Maria delle Grazie i ( XV) attribuita a Benedetto da Maiano con l'elegante portico, che, ricorda quello dei Servi , a Bologna, nonchè la Loggia del Vasari. Reperti archeologici etruschi documentano l’esistenza di Arezzo (Arretium) fin dal VI sec. a.C. La città continuò ad essere fiorente nel periodo romano, in cui fu organizzata come municipio con un vastissimo territorio. Nel primo periodo imperiale la sua ceramica sigillata di colore rosso corallino con decorazioni a rilievo (ceramica aretina) divenne famosa e fu esportata e poi imitata per tutto il territorio dell’Impero. Essa era famosa tanto quanto lo sono ora le sue industrie orafe che, insieme ad attività imprenditoriali di vario tipo, fanno di Arezzo una delle città più ricche d’Italia. Del periodo classico il Museo archeologico offre ricca testimonianza : il suo pezzo più famoso è forse il cratere di Euphronios del 500 a.C. Ricca e intensa è stata la vita del Comune nel Medioevo . Ricordiamo solo un episodio : lo scontro con Firenze a Campaldino nel 1289 che ci richiama versi famosi di Dante Alighieri. Delle tracce dell’esule poeta fiorentino è del resto piena la vicina e bellissima vallata casentinese, una delle quattro del territorio aretino insieme a Valdarno, Valdichiana e Valtiberina. Nel 1384 Arezzo fu praticamente " venduta " a Firenze e da allora in poi la sua storia fu quella della Repubblica fiorentina prima, della Signoria e del Granducato di Toscana poi. I Medici hanno naturalmente lasciato la loro impronta nella fortezza cinquecentesca a Nord della città. Nel centro storico, chi cammina lungo il Corso o le strette strade medievali che salgono verso la parte più alta dove si trova la cattedrale gotica dedicata a S.Donato, ha spesso l’impressione di trovarsi dentro uno degli affreschi di Piero della Francesca della Leggenda della vera Croce, in S.Francesco. Nello sfondo del ritrovamento delle tre Croci, la Gerusalemme ha i tratti reali dell’Arezzo quattrocentesca. Del periodo romanico il capolacvoro è la Pieve di Santa Maria dei sec. XII e XIII, di grande suggestione, che contiene tra le altre opere d’arte un polittico di Pietro Lorenzetti. Nella Chiesa di San Domenico poi si trova un altro pezzo eccezionale, un Crocifisso di Cimabue. In questa città ebbe i natali Francesco Petrarca e, qualche secolo dopo, Giorgio Vasari, celebre per le sue Vite, ancora oggi testo indispensabile per la biografia degli artisti fino al Cinquecento. Ad Arezzo si corre ancora ogni anno la Giostra del Saracino, manifestazione folkloristica in costume. Con la lancia in resta abili giostratori a cavallo attaccano la sagoma lignea del " Buratto " che a sua volta può colpire cavallo e cavaliere con un’arma che tiene nella mano destra se questo, una volta colpito, non si allontana velocemente. Arezzo: La nascita del libero Comune È la rinascita successiva al Mille ad innescare un nuovo fermento economico, demografico ed edilizio. Cardine ed emblema della ripresa è la nascita del libero Comune, che estende rapidamente il suo dominio nel contado, erodendo gli ampi poteri signorili delle autorità ecclesiastiche. La presenza di un console è attestata ad Arezzo fin dal 1098. Attorno al 1200 lo sviluppo urbano induce alla costruzione di una nuova cerchia di mura, che sul lato NE si riconnette a quella etrusco-romana, mentre sui versanti S ed 0 abbraccia a semicerchio la base della collina con un tracciato ancora visibile nel percorso di via Garibaldi (15 Kb). I1 perimetro della cinta raggiunge i 2.600 m. e racchiude un'area di ca. 51 ettari; la radiale principale diviene il borgo maestro. Nel corso del Duecento sorgono nella parte più alta della collina numerosi edifici pubblici e casetorre (36 Kb); viene portata a termine la costruzione della prima grande basilica della città comunale, la Pieve di S. Maria, splendido esempio di architettura romanica (14 Kb). Alla fine del secolo, sotto l'influsso del nuovo stile gotico che va affermandosi, inizia la costruzione della Cattedrale, evento che segue il forzato ritorno della sede vescovile all'interno delle mura (1203), e delle chiese di due importanti ordini monastici predicatori: S. Francesco e S. Domenico. La vita cittadina è regolata dal Comune, retto in prevalenza dalla parte ghibellina, che estende il proprio dominio su un vasto territorio (da Borgo S. Sepolcro alla Massa Trabaria, dal medio Valdarno alla Valdambra, dal Casentino alla Valdichiana) rendendosi protagonista della sanguinosa presa di Cortona (1258) (11 Kb) e scontrandosi con alterna fortuna con i grandi Comuni vicini (Siena, Firenze, Perugia, Città di Castello). La disfatta subita dai ghibellini a Campaldino (1289), dove muore lo stesso vescovo di Arezzo Guglielmino Ubertini, mette Firenze e Siena in possesso di larghe porzioni di territorio aretino. Il risveglio culturale annovera l'apertura dello Studium - i cui ordinamenti del 1255 regolano una delle più antiche Università medioevali - il fiorire delle Arti liberali e l'attività di rimatori (Guittone, 1235 ca. - 1294) ed artisti locali (Margarito d'Arezzo, 1236 ca. - 1293 ca.), seguiti da maestri fiorentini (Cimabue, Crocifisso in S. Domenico) e senesi (Pietro Lorenzetti, polittico della Pieve). Nel 1304 Arezzo dà i natali a Francesco Petrarca, figlio di un fuoriuscito fiorentino. Arezzo: La Signoria dei Tarlati L'ascesa di Guido Tarlati (nel 1312 vescovo, nel 1321 signore a vita), della potente casa ghibellina dei Pietramala (il suo stemma è conservato presso lo Stemmario dell'Archivio di Stato (28 Kb), mentre il suo cenotafio è situato nella Cattedrale (25 Kb), risolleva la città dalla sconfitta di Campaldino ed avvia nei primi decenni del Trecento un nuovo, intenso periodo di sviluppo. Sull'onda delle riconquiste e degli ingrandimenti territoriali si procede ad un ulteriore ampliamento della cinta muraria verso la pianura di sud; a lavori ultimati, le mura civiche racchiudono una superficie di 107 ettari. A Guido Tarlati succede nella signoria il fratello Pier Saccone (1327), con il quale inizia un rapido processo di decadenza; nel 1337 la città viene ceduta una prima volta a Firenze, che porta al potere la parte guelfa. Recuperata l'indipendenza e falliti diversi tentativi di instaurare un governo signorile, si giunge tra il 1376 ed il 1384 ad una prolungata crisi politica, durante la quale la città è ripetutamente messa a sacco. Nello stesso 1384, nuovamente ceduta a Firenze dal condottiero Enguerrand de Coucy per 40 mila fiorini d'oro e definitivamente legata alle sorti della dominante, Arezzo perde, assieme all'indipendenza, gran parte della sua autonomia culturale ed artistica. Spinello Aretino (1346 ca. 1410) è l'ultimo artista locale a lavorare in città nella seconda metà del Trecento ; nel corso del secolo successivo l'ambiente culturale aretino è dominato da personalità di formazione fiorentina, che lasciano una precisa impronta anche nell'architettura cittadina, in fase di passaggio dallo stile gotico a quello rinascimentale. Nel Quattrocento operano ad Arezzo Bernardo Rossellino (Palazzo di Fraternita), Benedetto da Maiano (portico di S. Maria delle Grazie ), Giuliano da Maiano (chiostro di Badia), Parri di Spinello, Bartolomeo della Gatta (progetto della chiesa della Ss. Annunziata). Ma l'avvenimento di maggior portata è l'affidamento a Piero della Francesca degli affreschi del coro della chiesa di S. Francesco ; dall'incarico, conferito nel 1453, nasce il celebre ciclo della Leggenda della Vera Croce , destinato ad entrare nel novero dei capolavori dell'arte italiana ed universale. Escono tuttavia da Arezzo uomini come l'umanista Leonardo Bruni (35 Kb) (1374 ca. -1444), autore della Historia Florentina, i letterati Benedetto (13 Kb) (1415 -1466), Francesco (1416 - 1488) e Bernardo (1458 1535) Accolti, il corrosivo scrittore Pietro Aretino (1492 - 1556). Piccoli suggerimenti per la ricerca delle proprie soluzioni per le vacanze in Toscana. 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San Gimignano

San Gimignano si erge con il profilo delle sue torri, su di un colle (m.334) a dominio della Val d’Elsa. Sede di un piccolo villaggio etrusco del periodo ellenistico (III-II sec. a.C.) inziò la sua storia intorno al X secolo prendendo il nome del Santo Vescovo di Modena: San Gimignano, che avrebbe salvato il borgo dalle orde barbariche. Ebbe grande sviluppo durante il Medioevo grazie alla via Francigena che lo attraversava. Tant’è che San Gimignano ebbe una straordinaria fioritura di opere d’arte che adornarono chiese e conventi. Nel 1199 divenne libero comune, combattè contro i Vescovi di Volterra ed i comuni limitrofi, patì lotte intestine dividendosi in due fazioni al seguito degli Ardinghelli (guelfi) e dei Salvucci (ghibellini). L’otto maggio 1300 ospitò Dante Alighieri, ambaciatore della lega guelfa in Toscana. La terribile peste del 1348 ed il successivo spopolamento gettarono San Gimignano in una grave crisi. La cittadina dovette perciò sottomettersi a Firenze. Dal degrado e abbandono dei secoli successivi si uscì soltanto quando si cominciò a riscoprire la bellezza della città, la sua importanza culturale e l’originaria identità agricola. Itinerari artistici Il Duomo o Chiesa Collegiata, consacrata nel 1148, strutturata su tre navate è arricchita da pregevoli affereschi di scuola senese: Vecchio e Nuovo Testamento (Bartolo di Fredi e "Bottega dei Memmi"); Giudizio Universale (Taddeo di Bartolo), opere di scuola fiorentina: Storie di Santa Fina (Ghirlandaio), San Sebastiano (Benozzo Gozzoli), Statue Lignee (Jacopo della Quercia) e sculture di Giuliano e Benedetto da Maiano. Tutto questo fà della Collegiata di San Gimignano un museo di grande prestigio. Palazzo comunale Cortile e Sala di Dante con la Maestà di Lippo Memmi. Museo Civico e Pinacoteca con opere di Filippino Lippi, Pinturicchio,Benozzo Gozzoli, Domenico di Michelino, Pier Francesco Fiorentino, Sebastiano Mainardi, Lorenzo di Niccolò di Martino, Coppo di Marcovaldo ecc... Inoltre dal museo civico si può visitare la Torre Grossa o del Podestà costruita nel 1311 ed alta 54 metri. Museo d’arte Sacra : Tele, tavole e frammenti lapidei provenienti da chiese e conventi soppressi. Argenterie, corali e vesti liturgiche. Chiesa di Sant’Agostino : Storie di Sant’Agostino (Benozzo Gozzoli) resti di affreschi trecenteschi, tavole e tele di autori diversi (Benozzo Gozzoli, Piero del Pollaiolo, Pier Francesco Fiorentino, Vincenzo Tamagni, Sebastiano Mainardi). Cappella di Santo Bartolo(Benedetto da Maiano). Chiese minori: Santo Bartolo, S. Jacopo, San Piero, San Francesco (resti), S.Lorenzo in Ponte.

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